La guerra delle Dinastie

Nota dell’autore

Quello che pubblico è il lungo doppio prologo della saga fantasy “La Guerra delle Dinastie”, ancora in corso d’opera.

Sono le storie di due personaggi importanti nella saga legati a due schieramenti diversi. Diversi loro stessi, ma entrambi figli del fato che li porta per vie casuali ad assumersi responsabilità che non avrebbero mai immaginato.

Volendo in questo modo mettere in discussione l’idea di bene e male, di nemico, attraverso differenti culture che si confrontano ognuna dal suo punto di vista.

Sono due visioni diverse della stessa guerra, che come tutte le guerre non ha buoni e cattivi, ma solo esseri che lottano, soffrono e cercano di sopravvivere, ognuno con le proprie ragioni, i propri sogni e le proprie speranze.

Il male è altrove…..nella guerra stessa, negli interessi che sono dietro ad una guerra, nell’avidità e la stupidità di chi gestisce il potere senza rendersi conto della propria follia.

 

Prologo – La Rocca dell’Ombra

1

 

Risaliva la scarpata alla massima velocità possibile cercando di seguire quel sentiero, non più percorso da piedi umani da un tempo incalcolabile e ormai ridotto ad una vaga pista da animali.

Lo stavano inseguendo. Guardò in basso mentre riprendeva fiato, solo un istante per tentare di vedere in quanto lo seguivano nel buio della notte.

Si era sentito eccezionalmente astuto, o forse troppo disperato, quando aveva scelto di attraversare il dimenticato Passo del Negromante.

Aveva sentito le antiche leggende che la gente ancora raccontava nei villaggi del Kushavir, confuse, discordanti, incredibili, tutte con un elemento in comune: la paura.

Era un evaso, condannato ai lavori forzati.

La fatica massacrante, le frustate, il caldo, gli insetti, i predatori delle Paludi del Tush, dove era stato portato per lavorare alla manutenzione della Grande Strada Commerciale dell’Ovest, erano terrori ben tangibili come la fame sorda, profonda, sempre presente.

Aveva deciso di fuggire finché ne aveva ancora la forza. Sfidando le paludi era andato sempre più a nord. Attraverso lo Stramm, detto anche la Porta Bassa, era entrato nel Kushavir pensando di raggiungere le Grandi Steppe attraversando la Porta dei Nani, ma il Maglio e l’Incudine, come la chiamavano i nani dell’ovest, si era dimostrata impenetrabile, così raramente aperta e talmente ben sorvegliata che sarebbero state troppe le domande delle guardie cui un evaso non avrebbe potuto rispondere.

Era la porta fortificata che difendeva il Kushavir, o Kazabir nella lingua dei nani, dagli orchi del nord e dalle orde dei nomadi delle steppe, che ben volentieri avrebbero saccheggiato il prospero altopiano.

Questo, chiuso a ferro di cavallo dalle alte catene montuose del Torand, scendeva ripidamente ad ovest verso il Grande Oceano dove sorgeva Elmar, il porto più a nord dell’Alleanza di Giada.

Nell’interno sorgeva la città di Talen e una infinità di piccoli insediamenti umani che convivevano con i nani dell’ovest che abitavano nelle rocche intorno alla Porta dei Nani. Era una convivenza basata sull’interesse reciproco, un’alleanza commerciale in una zona remota e al ridosso del nemico, ma protetta da una natura impervia.

A nord, sull’altro versante dei monti c’erano le orde degli orchi che ripetutamente ed invano avevano cercato di forzare la Porta dei Nani, ma si erano infrante sulle mura di quella roccaforte che dominava una stretta gola con la porta, rinforzata dal miglior acciaio nanesco, protetta da due forti bastioni, il Maglio e l’Incudine, da cui i balestrieri nani avevano mietuto innumerevoli vittime tra gli assalitori. Chi cercava di scalare i bastioni o forzare la porta veniva ustionato dall’olio che ribolliva in enormi calderoni ribaltabili o veniva bersagliato da grandi pietre che rotolavano dalle vette sovrastanti acquistando velocità sugli scivoli costruiti dai genieri nanici e si schiantavano con estrema violenza sugli assalitori. Quale ultima difesa c’erano poi le terribili asce bipenne della fanteria in armatura pesante che, però, raramente erano entrate in azione. Il nemico aveva capito a caro prezzo che gli era negato varcare quella soglia.

Le alte montagne a nord erano troppo impervie perché un esercito vi potesse passare e le rare piste da capre che le attraversavano erano facilmente difese dagli uomini, boscaioli e cacciatori, che vi vivevano. Erano temibili arcieri che, con i loro archi lunghi, avevano più volte servito tra le forze dell’Alleanza come Reggimento del Precettore. Questo titolo, anticamente dato al messo imperiale di Alanar, la città di Giada, era ora utilizzato dal borgomastro di Talen, detta anche la Città del Precettore.

Ma c’era un altro passo noto nella catena del Torand, Tuzbir per i nani, più impervio degli altri, che aveva acquisito una cupa nomea. Guardato dal signore di una piccola fortezza, detta la Guglia Nera, era diventato la tomba di ogni squadra di esploratori degli orchi o di razziatori nomadi che avevano tentato di attraversarlo. Si diceva che il signore della rocca fosse un negromante rinnegato che lì si era stabilito fuggendo dal nord senza poter scendere più a sud. Mai da quella rocca era arrivata richiesta di aiuto, mai nemico aveva fatto ritorno. Le leggende erano fiorite e dopo innumerevoli anni la triste fama del passo, sui due lati dei monti, si era così accresciuta, che nessuno tentava più di avvicinarvisi, anche se ormai era vegliato solo da rovine. L’urlo del vento tra le pietre era il lamento dei morti.

In quest’ultimo varco aveva riposto le sue speranze il fuggitivo. Non aveva paura delle leggende e se avesse potuto varcare indisturbato il passo, con un po’ di fortuna sarebbe arrivato da quelle tribù nomadi con cui, ai tempi in cui era stato ladro e contrabbandiere, aveva fatto non pochi affari e certo lo avrebbero accolto, se non per amicizia, per le conoscenze che ancora aveva tra i peggiori farabutti delle vecchie città imperiali che avrebbero fruttato altri buoni affari.

Ma qualche cosa era andata per il verso storto e quando ormai era a buon punto della discesa, sul versante opposto, si era imbattuto in una piccola squadra di ricognitori orchi.

Probabilmente non lo avrebbero visto, né si sarebbero inerpicati verso il passo, se la stanchezza non avesse abbassato la sua attenzione e rallentato i sui riflessi. Ormai, lo inseguivano mentre fuggiva nuovamente verso l’alto, dimentichi delle leggende, tanto per loro era strano e impensabile incontrare un uomo del sud da quelle parti.

Arrivato alla sommità del passo, si incuneò nel varco della vecchia posterla che era stata l’ingresso sul versante nord della rocca, ora ridotta ad un angusto passaggio tra le pietre in rovina.

Le ombre della notte lo aiutavano, ma gli impedivano di vedere chiaramente il paesaggio circostante.

Gli orchi si stavano avvicinando. Doveva trovare un nascondiglio o un modo per far perdere le sue tracce, sempre che fra loro non ci fosse un segugio, uno di quegli orchi con l’olfatto particolarmente sviluppato capace di seguire qualunque traccia, anche vecchia di giorni. I segugi erano l’incubo degli alleati, fossero spie o ricognitori: se venivano fiutati da uno di loro difficilmente avevano scampo. Gli schiavi umani, catturati dagli orchi, che avevano tentato non avevano mai potuto raccontare della loro fuga.

Così ora si inerpicava tra le rocce franate in cerca di un nascondiglio. Nella fretta dell’inseguimento il passo pesante degli orchi si faceva sempre più vicino. A tentoni girò intorno ai resti di un muro e scese per quella che una volta doveva essere stata una stretta scala di pietra. Ancora un angolo ed ancora delle scale. A tentoni seguì la parete fino ad un varco il cui architrave aveva mezzo ceduto. Ancora più in basso. I passi degli inseguitori sembravano più lontani. Ora era all’interno della rocca o in una grotta sotto di essa. Scese ancora e si fermò in ascolto. I rumori dell’inseguimento erano distanti ed ovattati, il cuore gli batteva forte e gli mancava il respiro. Si costrinse a prendere delle ampie e lente boccate d’aria, per timore che udissero il suo respiro affannoso in quel silenzio assoluto. Si stava cominciando a rilassare e la sua mente da ladro stava cominciando a valutare le possibili alternative quando gli parve di sentire un rumore. Forse si era sbagliato, forse. Qualcuno stava annusando, il gelo gli corse lungo la spina dorsale.

Un segugio.

Senza fare rumore si mosse all’indietro nel buio più assoluto. Sapeva che era inutile. Tra poco il segugio lo avrebbe raggiunto, non poteva fuggire. Dietro al segugio si cominciavano a sentire altri passi.

Continuò ad indietreggiare finché la sua mano non toccò una superficie dura. Lentamente spostò la mano sulla superficie senza capire cosa stesse toccando, finché non si trovò nella mano una forma nota. Sotto il suo tocco vecchie ossa si sbriciolarono e si ritrovò in mano l’elsa di una spada.

Quanti potevano essere gli inseguitori? Non li aveva potuti contare, né ci aveva pensato prima. Certo non molti, probabilmente una piccola squadra di esploratori. Cinque, sei con il segugio. Non poteva esserne certo, ma fra poco lo avrebbe scoperto. I rumori degli inseguitori erano sempre più vicini. Si abbandonò all’ineluttabile. Non li avrebbe certo fermati con il moncone di una vecchia spada arrugginita. Poteva solo provare a morire velocemente.

Il respiro del segugio gli fu addosso e lui colpì.

Sotto il colpo vibrato con la forza della disperazione l’armatura dell’orco cedette e un fiotto di sangue caldo lo investì in pieno viso. La spada aveva retto. Anzi sembrava ancora terribilmente affilata ed attraverso l’acciaio una strana sensazione gli attraversò il braccio e raggiunse lo stomaco. Non aveva tempo di pensare. Scavalcò il corpo dell’orco che cadeva e barcollò addosso al secondo avversario. Colpì ancora alla cieca dall’alto verso il basso. Ancora il fendente andò a segno. La vibrazione allo stomaco aumentò e provò un vago disgusto.

 

Dopo il primo attacco a sorpresa il suo vantaggio stava velocemente diminuendo. Nel buio assoluto lui era cieco mentre gli orchi, con le loro pupille verticali, potevano distinguere almeno la sua sagoma. Si precipitò, quindi, lungo la stretta scala che aveva appena percorso finendo addosso all’orco successivo. Si susseguirono una serie convulsa di calci, pugni e spallate. Non vide arrivare la spada che saliva dal basso, ma la sua mano si mosse con estrema rapidità a parare il colpo e con una torsione del polso la sua lama trafisse l’addome dell’avversario. Mentre il corpo gli si abbandonava addosso fu percorso da un brivido straziante di dolore e percepì un vago lucore azzurrognolo emanare dalla spada.

Ad ogni colpo sentiva salire l’eccitazione. Aggredì selvaggiamente gli orchi rimasti che, sgomenti, si stavano ritirando nella stanza superiore.

Come un berserker era percorso da una furia selvaggia, colpiva sempre più velocemente, con la lama che gli baluginava in mano permettendogli di vedere le sagome degli avversari, e senza sentire dolore per i colpi ricevuti.

Diverso era il dolore che lo frustava dentro ogni volta che un orco moriva.

Improvvisamente tutto finì.

Gli orchi erano tutti morti, la luce azzurra che emanava dalla spada si spense improvvisamente e lui cadde esausto al suolo.

 

Quando si svegliò, il sole aveva già passato lo zenit. Aveva la testa pesante, tutto il corpo dolorante, le mani e le braccia, le ginocchia, le gambe piene di escoriazioni che si era fatto durante la fuga. Le varie ferite riportate nello scontro, durante il sonno avevano smesso di sanguinare, ma ora facevano sentire la loro presenza con un bruciore e un pulsare continuo.

Dove, nella notte, era stata solo oscurità ora filtrava la luce proveniente dalle crepe nella volta e dai muri mezzo diroccati. Poté così guardarsi intorno. I corpi degli orchi erano sparsi intorno a lui. Lentamente, a fatica, si avvicinò al primo cadavere e cominciò a frugare. Aveva fame e sete. Prima di tutto doveva placare la sete tremenda che lo tormentava. Trovò la borraccia di svach, la bevanda aspra e densa che gli sciamani orchi ottengono dalla fermentazione del latte di capra mescolato a bacche ed erbe, che ogni guerriero si porta sempre dietro. Lo svach è una bevanda amara, ma, allo stesso tempo, dissetante e rinvigorente. Bevve lentamente, a piccoli sorsi, con la bevanda che gli bruciava la gola ma leniva la sua sete. Senza esitazione versò il liquido sulla prima ferita; bruciava terribilmente, ma questo era il suo secondo uso: era un disinfettante che asciugandosi lasciava uno strato protettivo sopra le ferite. Si tolse gli abiti stracciati e procedette a disinfettare il corpo ferito meglio che poteva. Non aveva nulla per suturare i tagli, ma, per fortuna, nessuno era troppo profondo. Quando ebbe finito si riposò un poco, poi iniziò a frugare nello zaino dell’orco. Trovò subito le strisce di carne secca e mentre masticava lentamente la prima, prese a tirar fuori il resto degli oggetti. Il suo istinto da ladro lo spinse a raccogliere tutto ciò che gli poteva essere utile. Prese l’acciarino con pietra focaia, una ciotola di legno e la sacchetta della paga contenente qualche moneta dei più svariati conii. Su tutto il continente di Olon nessuno faceva caso alla provenienza del denaro ma guardava al peso ed alla qualità della lega, fossero monete di rame, argento, oro. Spogliò il cadavere mettendo da parte le armi e l’armatura, allontanò il corpo scalciandolo, si coprì come meglio poté con i vestiti sporchi dell’orco morto e, troppo stanco per continuare, si riaddormentò.

Si svegliò immerso nella prima luce dell’alba successiva. Cominciava a sentirsi meglio. Controllò che le ferite non si stessero infettando, ma non vide peggioramenti. Comunque le disinfettò nuovamente con lo svach, poi si riabbandonò al suolo. Lasciando scorrere lo sguardo intorno a sé, si fermò sulla spada che lo aveva salvato. Era un’arma molto antica, fatta di una lega nero-azzurrognola, con la lama lunga e non molto larga. Cominciò a ricordare il combattimento. Probabilmente era stato troppo stanco ed impaurito per capire cosa fosse accaduto esattamente, ma quell’arma gli era sembrata avere vita propria. Si alzò e prese la spada da terra. La bilanciò nel pugno e, con prudenza per non far riaprire le ferite, le fece compiere qualche lento arco. Era stata forgiata sicuramente da un grande armaiolo, bilanciata e reattiva; non era come le spade da truppa, efficienti, ma sgraziate e senza vita.

Già, doveva essere stata proprio la qualità dell’arma a fargli pensare che si muovesse quasi con vita propria. Con mente pratica posò l’arma e continuò il lavoro cominciato con il primo orco. Spogliò tutti i cadaveri, che nonostante l’aria fredda, cominciavano a puzzare e lentamente, con grande fatica li lasciò cadere nella scarpata sottostante, da dove erano saliti solo la notte del giorno precedente. Non poteva girare vestito da orco, ma con molta pazienza si adattò addosso dei calzoni e una giubba fatti con parti del morbida pelle conciata dei sottocotta di maglia. Sostituì le sue scarpe mal ridotte con i calzari del segugio che gli si adattavano meglio degli altri e recuperò un giustacuore di cuoio. Era troppo largo ma non poteva guardare troppo per il sottile. Da ultimo si aggiustò una cintura e, praticamente tagliando via quasi tutto il fodero visto che gli orchi di solito usavano spade corte o lunghe scimitarre dette falcioni, fece scivolare la spada al suo fianco. Sistematosi al meglio, arrangiò una torcia e scese a ringraziare colui che gli aveva involontariamente salvato la vita donandogli la spada.

Il corpo giaceva su un lungo blocco di pietra. Era stato sicuramente il signore della rocca. Anche se ormai completamente distrutti, i rimasugli degli abiti lasciavano intravedere la ricchezza di un tempo. Ma, soprattutto, lo colpì l’armatura ancora intatta, sicuramente fatta dello stesso metallo della spada. Non era l’armatura pesante di un nobile, bensì la difesa di un pratico guerriero, leggera, essenziale eppure palesemente ricca ed ancora intatta. Solo il fatto che le epoche passate avessero fatto cedere il muro che chiudeva l’accesso alla cripta, avevano salvato il tesoro dai razziatori. Ma, più probabilmente, erano bastate le leggende che circondavano la rocca ad evitare che mani troppo curiose frugassero tra le rovine in cerca di tesori perduti. Gli sembrò un segno divino, un appuntamento del destino riservato solo a lui. Spogliò i resti dell’armatura, rendendosi conto di quanto fosse leggera solo quando la sollevò, e ringraziò ancora l’antico proprietario. Sollevò l’elmo posto affianco alle spoglie e, per curiosità, lo indossò. Calzava bene e permetteva una buona visuale dalle feritoie pur coprendo completamente il volto.

Raccolse rapidamente la dotazione funeraria del vecchio signore: due coppe, due piatti, una caraffa e qualche posata d’argento, un sacchetto con alcune monete d’oro e alcune pietre preziosa, una catena sempre d’argento da cui pendeva una medaglia con uno stemma sbiadito ed un anello d’argento con un lupo scolpito nell’onice che infilò al dito. Poi si affrettò a tornare all’aria aperta.

Era ancora vivo.

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  Aveva messo le cose utili ed il suo piccolo tesoro nello zaino di uno degli orchi, non era molto ma in una città gli avrebbe fruttato abbastanza per…

Continuava a rimuginare sulle varie possibilità mentre scendeva a valle. Per vendere le cose preziose di cui era il nuovo proprietario, doveva trovare un rigattiere che non facesse troppe domande e, con la sua esperienza, lo avrebbe sicuramente trovato a fiuto nei sobborghi della prima cittadina che avesse incontrato. Prima di tutto, però, gli servivano vestiti nuovi. Non poteva andare in giro vestito da mezzo orco e con un’armatura fuori dal comune senza destare un’attenzione che non gradiva.

Per questo e per un breve periodo di sopravvivenza, sarebbero bastati i soldi delle paghe degli orchi, tanto non aveva bisogno di nulla di lussuoso. Per dirla tutta anche l’armatura aveva bisogno di un fabbro che gliela adattasse addosso e sostituisse le cinghie di cuoio deteriorate che lui stesso aveva sistemato alla bell’e meglio con quelle prese dalle armature degli orchi.

Durante la fuga verso nord, prima di inerpicarsi sul sentiero che portava al passo, aveva visto un piccolo villaggio alle pendici delle montagne, ma si ricordava di poche casupole di contadini con forse uno spaccio che fungeva anche da locanda. Non era questo che cercava. Quindi deviò attraverso i boschi, per muoversi senza essere visto, in cerca di una casa isolata o di un incontro fortuito che facesse al caso suo per poter chiedere indicazioni sulle cittadine della zona. Stava per scavallare l’ennesimo dosso per scendere in un’altra piccola valle quando, dalla sua posizione elevata vide del fumo salire dal bosco.

Era quello che cercava. Con prudenza si avviò in direzione del fumo. Quando lo raggiunse vide che saliva dal buco centrale di una piccola capanna in una radura del bosco, vicino ad una sorgente. In giro non sembrava esserci nessuno. Continuò ad avvicinarsi con cautela.

Si era avvicinato ad una finestra cercando di sbirciare all’interno quando una voce dietro di lui comincio ad urlare: “Razza di farabutto, ti trasformerò in un ratto di palude e ti seccherò i gingilli. E così credevi di poter fregare la vecchia Nellie, ladro della malora”.

Preso di sorpresa, si girò di scatto estraendo la spada e si trovò davanti una vecchiaccia, sporca e scarmigliata, che lo fissava con occhi rabbiosi.

Alla vista dell’arma la megera cominciò a tremare e farfugliare: “Ecco, quei disgraziati del villaggio hanno assoldato uno stregone per uccidere la povera Nellie. Non ne hanno il coraggio loro. Vengono solo quando stanno male, quando vogliono i loro stupidi filtri d’amore o che faccia il malocchio ai loro cari vicini.”

Tutto gli ci voleva meno che una vecchia pazza.

“Calma nonna, non sono qui per ucciderti”.

“Vuoi giocare alla lince e al ratto con Nellie? Credi che sia stupida stregone? Prima che mi uccidi ti farò venire le verruche e la gotta e se ci riesco anche la piorrea”. Continuò a gridare la vecchia saltellando, sputacchiando e facendo gesti di scongiuro con la mano sinistra mentre con la destra gli agitava in faccia un bastone tintinnante di ammennicoli vari.

“Mi devi aver scambiato per qualcun altro. Non vengo da nessun villaggio e non sono uno stregone”, disse mentre spostandosi frapponeva la spada tra sé e la pazza.

La strega fece immediatamente un salto indietro gridando: “Maledetta! Un’arma maledetta!”

Allontanandosi cautamente rinfoderò la spada che agitava evidentemente quella donna priva di senno.

“Ecco, vedi? L’ho tolta. Ti ripeto che non voglio ucciderti…. almeno se smetti di gridare e minacciarmi col tuo bastone.”

La vecchia era poco convinta, ma portatasi a distanza di sicurezza, cominciò a valutarlo con più attenzione.

“Ho solo bisogno di aiuto. Sono stanco, ferito e ho perso la strada. Se puoi fare tutte le cose che minacci certo puoi aiutarmi senza timore.”

“Pensi che sia completamente scema? Uno stregone come te non si perde e guarisce da solo le proprie ferite. Stanco poi…”

“Ti ho già detto che non sono uno stregone.”

“La tua spada è un faro acceso. Non puoi ingannare chi ha la vista.”

“Guarda, ho combattuto e sono stato ferito”, disse scoprendosi un braccio e mostrando le ferite che aveva medicato come aveva potuto. “E, come puoi vedere, non posso guarirmi da solo. La mia spada ha ucciso orchi.”

Gli occhi della vecchia divennero due fessure. “Può darsi”, disse pensosamente. “Hai stracci di orco addosso, ho sentito la puzza mentre ti avvicinavi e non mi hai ucciso subito. Forse lo farai quando Nellie ti avrà curato, eh? Tanto sono vecchia e non avrai molto da mangiare stregone mezzo orco e le mie ossa ti andranno di traverso e ti bucheranno le budella. Sei sicuro che se ti aiuta non uccidi la povera Nellie?”

Improvvisamente la vecchia prese la sua decisione e rassegnata si avviò verso la porta della capanna.

“Vieni dentro creatura malvagia, ma la spada resta fuori. O così, o crepa.”

La casupola, illuminata solo dal fuoco centrale, era buia e ingombra di un’infinità di cianfrusaglie, probabilmente regali dei villani che cercavano l’aiuto della fattucchiera, mazzi di erbe erano appesi a seccare al soffitto ed il loro odore saturava l’aria.

Sulle mensole erano poggiati vasetti e sacchetti pieni di chissà cosa.

La vecchia lo fece spogliare e guardò con attenzione le ferite che gli ricoprivano il corpo. Ne toccò una con un dito che poi infilò in bocca. “ Svach. Lo dicevo io, sei un mezzo orco, ma non sei stupido. Ti ha evitato che si infettassero.”

Con palese esperienza, la vecchia cominciò a ripulire le ferite ricoprendole con unguenti presi dai vasetti e fasciandole una ad una canticchiando una strana litania. Ogni tanto alzava gli occhietti slavati a guardarlo e sputacchiava in giro per scongiuro.

Mentre quella finiva il suo lavoro, lui le disse: “Grazie nonna. Hai visto che non volevo farti del male? Ora avrei anche bisogno di qualche vestito. Come tu stessa hai notato non posso andare in giro con roba degli orchi.”

“Curo gli scemi ma non sono una sarta. A meno che tu non voglia qualche mia vecchia gonna, razza di sporcaccione.” Gli rispose sghignazzando Nellie.

     “Mi basta un vecchio mantello per coprire questa roba e l’armatura finché non arrivo alla prima cittadina dove posso fare qualche affare senza dare troppo nell’occhio, sempre che mi indichi la strada per quella più vicina. ”

“E cosa ci guadagna la povera Nellie dopo aver faticato come una schiava per rappezzarti rischiando anche la propria vita?”

“Potrei darti qualche moneta.”

“Voi mezzi orchi dovete essere proprio stupidi”, sbuffò la vecchia. “Proprio questa sera volevo andare alla fiera per comprarmi un po’ di nastri. Scemo. Che me ne faccio dei tuoi soldi nel bel mezzo di una foresta? Devi offrirmi qualche cosa di utile o di bello tesoro mio.”

I tesori razziati erano troppo preziosi e, a parte quelli, non possedeva altro da barattare.

“Posso darti la mia parola che quando tornerò da queste parti ti porterò qualche cosa che sicuramente gradirai.”

Nellie sputò a terra. “La parola di un manigoldo, ladro, mezzo orco e stregone cosa può valere? Chi sei tu che spendi la tua parola? Vuoi forse darmi in pegno il tuo nome?”

Era credenza popolare che un esperto di magia avesse il potere di affatturare l’incauto che gli rivelava spontaneamente il proprio nome. Così, senza neanche pensarci sopra, disse alla vecchia strega la frase che gli avrebbe cambiato definitivamente la vita.

“Nonna, sono il Signore della Guglia Nera.”

Nello stesso istante nell’aria immobile della cripta nell’antica rocca i resti mummificati del vecchio signore si dissolsero improvvisamente, quasi con un sospiro di sollievo, ed in lui nacque una consapevolezza: era veramente il nuovo signore della Guglia Nera.

“Non sei uno stregone, ma un’ombra”, sussurrò la vecchia tirandosi indietro mentre rabbrividiva.

Quella frase gli fece tornare in mente vecchi ricordi che lo spinsero ad interpretarla in modo molto diverso da quello che intendeva la megera. Un ladro che si muoveva nell’oscurità.

“Si è proprio così sono l’Ombra della Guglia Nera. Ed ora ecco la mia offerta. Quando tornerò ti porterò con me come guaritrice. Allora accetti?”

La povera Nellie in un castello come una vera signora”, cominciò a sghignazzare saltellando la vecchia, “proprio così, come una principessa. E sarà servita e riverita.”

Per un attimo gli occhi slavati si persero nei sogni, poi disse secca: “La tua strada è ad est, ma è più lunga di quanto pensi. L’unica città che fa al caso tuo è Talen, la città del Precettore, tutti gli altri sono solo piccoli villaggi di contadini, a meno che tu non voglia arrivare fino al porto di Elmar sulla costa ad un mese di cammino da qui…..se è giusto quello che dice quello scemo di Sam il mercante. Ed ora…vattene, sparisci ombra malefica Nellie è stanca.”

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La strada fu effettivamente piuttosto lunga. Gli ci vollero dieci giorni di cammino per arrivare a Talen.

Li percorse quasi tutti nei boschi.

Solo all’inizio si avvicinò, nottetempo, ad una fattoria isolata per rubare un po di provviste dal magazzino per il mercato. Poca frutta e carne secca che si fece bastare per tutto il viaggio. D’altra parte, durante il pellegrinaggio nei boschi, poteva raccogliere bacche e frutti selvatici che mangiava strada facendo.

Finalmente all’imbrunire del decimo giorno si fermo sulla cima di una piccola collina alberata a studiare la propria meta.

Talen era l’unica vera città del Kushavir. Al centro, su una larga collina, sorgeva il Palazzo del Precettore, con la caserma e gli altri uffici amministrativi. Intorno a questi c’era il nucleo originale della città, cinto da mura, con ancora la Porta Principale guardata dalle Guardie del Precettore. Tutt’intorno i nuovi quartieri erano sorti e si erano sviluppati caoticamente fino a far diventare l’originario borgo una città di rispettabili proporzioni, divisa in due dal principale fiume della regione, il Kilern, che scendeva dai monti a nord per gettarsi nel lago Citalo a sud della città.

Nella parte a nord c’era il quartiere commerciale, con la grande Piazza del Mercato e le vie degli artigiani. Poco più discoste sorgevano le ville dei ricchi mercanti. Di quando in quando si aprivano tra le case piazze più o meno grandi con locande e ricchi negozi.

A sud, affacciata sul lago, sorgeva la zona portuale, con i grandi magazzini, da cui le chiatte fluviali partivano per raggiungere il mare attraverso l’emissario Kilay, un fiume stretto e veloce, ma navigabile. Intorno a questa il caos di stretti e bui vicoli della suburra dove si accalcavano i meno fortunati di ogni città. Operai e scaricatori, cameriere e mulattieri, muratori e carpentieri convivevano con ladri e prostitute, mercenari ed assassini. Sulle strette piazzette si affacciavano locande a basso prezzo e postriboli. Era questo il pulsare di vite vivace e disperato che lui ben conosceva e cercava.

Tutt’intorno c’erano fattorie e campi coltivati attraversati dalla strada principale del Kushavir che entrava nella città da est per continuare ad ovest verso la costa.

Si prese tutto il tempo necessario per studiare, con la massima attenzione, la città ed il percorso migliore per raggiungere inosservato la sua meta, prendendo metodicamente nota di tutti i punti di riferimento principali.

A notte inoltrata si incamminò cautamente verso la suburra.

Seguiva il percorso prefissato con prudenza, da una macchia di alberi all’altra, da un fienile più isolato ad un muro, facendo attenzione a rimanere sempre coperto. Con calma raggiunse la periferia sud della città e si immerse tra i vicoli bui.

Dopo tanto tempo si sentiva, finalmente, a suo agio. Ombra tra le ombre raccoglieva istintivamente indicazione dai rumori e dagli odori che lo circondavano. Il vociare dietro un angolo, una piazzetta. L’odore di vomito e cibo stantio, il retro di una bettola.

Cercava il movimento di esseri furtivi verso il fioco lucore dietro le imposte chiuse che indicava quei negozi, aperti a qualunque ora del giorno e della notte, di cui aveva bisogno.

Il rumore di metallo battente lo spinse ad affacciarsi cautamente dallo spigolo del muro più vicino.

In una piazzetta buia, una figura si stava difendendo da quattro attaccanti.

Era palesemente una donna. Addossata ad un muro cercava di tenere a bada gli aggressori con una daga in una mano ed una man gauche nell’altra. Usava la daga in affondi di punta mentre roteava lo stiletto in rapide parate e feroci contrattacchi.

La scena si svolgeva nel più completo silenzio. Gli assalitori stavano avendo la meglio. La donna, nonostante la chiara abilità, mostrava le ferite subite nei movimenti contratti degli arti. Gli occhi dell’Ombra registrarono rapidamente l’abbigliamento della donna. Mantella con cappuccio, giustacuore di cuoio leggero, stivaletti di morbida pelle. Una ladra.

Senza pensarci un attimo di più entro in azione. Piombò addosso all’assalitore più vicino estraendo la spada e calandola con un solo fluido movimento. Colto alla sprovvista l’uomo fu falciato. Immediatamente la spada brillò di luce azzurrina mentre il sangue della vittima schizzava tutto intorno.

Ombra fu percorso da un dolore violento, sentì fisicamente la morte dell’uomo percuotergli il corpo come una frustata. La nausea gli offuscò gli occhi, ma la lama lo spinse in avanti come viva.

Il secondo avversario cadde quasi istantaneamente, con un braccio e la testa mozzati da un terribile fendente dal basso verso l’alto. Il dolore si ripeté amplificato. Ad ogni morte moriva anche lui. Quella strana sensazione che aveva provato uccidendo gli orchi la prima volta esplodeva, ora, amplificata nel suo stomaco e nella sua mente. Allo stesso tempo i muscoli sembravano prendere forza e velocità dalla spada ad ogni colpo che tirava.

Il terzo aggressore si era ormai girato per fronteggiare il nuovo attaccante. Tentò di parare il colpo in arrivo, ma la lama dell’Ombra si abbatté sulla sua con forza tremenda spezzandola e trafiggendogli le carni in un bagliore accompagnato da un gemito appena percettibile.

La donna colpì velocemente l’ultimo aggressore rimasto nel momento stesso in cui questo veniva distratto dall’incredibile assalto e si girò a fronteggiare, con timore e curiosità, l’uomo che gli aveva portato un così inaspettato aiuto. Un attimo prima stava per abbandonare definitivamente il mondo dei vivi ed ora guardava quello strano guerriero che giaceva piegato su se stesso contro il muro. Con efficienza ripulì le lame insanguinate e le fece sparire sotto la mantella, poi si avvicinò cautamente all’uomo.

Sedeva rannicchiato anche se non sembrava ferito. Sentì il suo respiro affannoso e con cautela si avvicinò e gli scostò il cappuccio. La testa era racchiusa da un elmo compatto, con para naso e strette feritoie. Glielo sfilò lentamente per farlo respirare meglio e con la curiosità di vedere il suo inatteso salvatore.

L’uomo stava piangendo.

“Cosa succede, per la madre di tutti i ladri, un guerriero come te è ben abituato ad uccidere e non frigna per una ferita. E tu non sei ferito affatto.”

“Chi o cosa sei. Forse un demone dei ladri? Beh, come sia sia mi hai salvato la vita e non possiamo rimanere qui. Ti aiuto ad alzarti e vieni via con me o sparisci come sei apparso?”

L’uomo allungò lentamente una mano e la donna lo aiutò ad alzarsi portandosi il braccio sulle spalle e facendo leva con il corpo. Così sorreggendolo si avviò lentamente verso il fondo del vicolo più vicino, mentre in mano teneva ancora l’elmo.

A poco a poco, l’uomo cominciò a riprendersi. Si poggiò ad un muro, trasse un profondo respirò e le sfilò l’elmo dalla mano.

Grazie” disse.

Grazie a te” rispose lei. “Certo che sei strano” continuò la donna. “Prima piombi nel mezzo di uno scontro come un demone vendicatore, in un attimo fai un macello con quella spada che manda lampi e poi ti metti a piangere come un ragazzino. Non so se fidarmi o avere paura di te. Si può sapere chi diavolo sei. Un essere umano od un ‘ombra uscita dalle tenebre?”

“Ombra” rispose lui. “Chiamami Ombra”

“Io sono Kila….Ombra. Ma ora vieni, dobbiamo andare in un posto sicuro. Quelli potrebbero non essere i soli che mi cercano.”

Lo guidò rapidamente nel labirinto di vicoli fermandosi, di tanto in tanto, ad ascoltare i rumori della notte o per sbirciare dietro gli angoli che, evidentemente, riteneva più pericolosi.

Dopo un tempo imprecisato Kila si fermò davanti ad una porta, che si affacciava su un vicolo, se possibile più buio e stretto degli altri. Estrasse una chiave ed armeggio con la serratura. In un attimo furono dentro.

Con calma lei accese una fioca lucerna e Ombra poté vedere che si trovavano in piccolo e modesto appartamento.

Le finestre erano sbarrate e, come la porta, ricoperte da pesanti drappi scuri così che la luce non poteva trapelare all’esterno. Una parte della stanza era occupata da un tappeto liso circondato da grandi cuscini e con al centro un basso tavolo. Ad una parete era appoggiato un solido armadio. Da un lato della stanza c’erano un focolare ed un acquaio incassato nel muro, dall’altro si apriva una porta che dava su un altro locale.

“Da quella parte c’è la camera da letto.” Indicò Kila.”Oltre, se ti serve, il bagno. Intanto io mi rappezzo alla meglio i graffi”.

“Si credo che mi serva.” Disse Ombra e andò a sciacquarsi la polvere ed il sudore.

Quando tornò nella stanza principale la sua ospite aveva vari bendaggi, aveva già raccolto tutto quello che riteneva necessario in un piccolo zaino e lo stava aspettando seduta a terra davanti al tavolino dove aveva appoggiato qualche cosa da mangiare. Frutta secca, un pezzo di formaggio e una bottiglia di vino di basso prezzo.

Quando Ombra tornò nella stanza principale la sua ospite aveva vari bendaggi, aveva già raccolto tutto quello che riteneva necessario in un piccolo zaino e lo stava aspettando seduta a terra davanti al tavolino dove aveva appoggiato qualche cosa da mangiare. Frutta secca, un pezzo di formaggio e una bottiglia di vino di basso prezzo.

Gli occhi di Ombra corsero alla sua roba accatastata in un angolo. “Stai tranquillo”. Disse Kila.”Sono una ladra, ma anche noi abbiamo un codice d’onore. Non derubo chi mi aiuta. Siediti e mangia qualche cosa, non è molto ma abbiamo poco tempo, chi mi cerca arriverà presto anche qui, anche se credo che non si aspettano di certo che i loro sicari hanno fallito e sono morti”.

“Chi ti vuole morta e perché?”

Nella gilda dei ladri di Talen è in corso una guerra di potere”. Cominciò a spiegare la ragazza. “La banda di Golais il Viscido è diventata molto potente controllando il traffico delle droghe ed il quartiere dei ricchi. Devono essere riusciti a corrompere qualcuno di molto importante nella guardia cittadina per poter agire quasi indisturbati in quel quartiere, probabilmente uno con il debole per qualche droga esotica.

Sono una dei Topi di Elvin il Guercio. La mia banda si è messa dalla parte sbagliata. Noi agiamo nella suburra ed eravamo alleati del Laido che controllava il porto. Ma il Laido ha preteso una quota troppo alta sulle droghe del Viscido che venivano scaricate di contrabbando dalle navi. Così Golais si è messo d’accordo direttamente con i contrabbandieri ed ora sta facendo piazza pulita degli avversari. Noi siamo una banda minore e quando abbiamo capito il nostro errore era troppo tardi. Ci stavamo preparando a cambiare aria per qualche tempo quando ci hanno chiuso l’accesso alle chiatte del fiume ed ora ci stanno attaccando.

Devo raggiungere gli altri, se sono sopravvissuti, e decidere cosa fare. Con i contrabbandieri alleati del Viscido il porto di Elmar ci è precluso”. Sospirò Kila. “Che mi dici di te? Ti fai notare un po’ troppo con quella spada, ma non mi sembra la tua intenzione”.

Ombra soppesò la ragazza per qualche tempo in silenzio poi lentamente cominciò a delineare l’idea che gli era venuta in mente. “Hai ragione. Volevo entrare e uscire dalla città indisturbato, ma evidentemente la Giocatrice ha deciso diversamente.” Fece una pausa guardando la ragazza. “E va bene. Forse potremmo aiutarci reciprocamente. Ho bisogno di un ricettatore sufficientemente onesto per piazzare alcune cose di pregio in mio possesso, di abiti nuovi e di un fabbro per risistemare la mia armatura”.

Kila, che lo stava guardando con attenzione, annui. “Si, mi sembra giusto. Hai modi da signore, ma ti muovi come un ladro. Ed ora che posso guardarti meglio vedo che i tuoi vestiti sono lisi e hai usato roba degli orchi per rabberciarti l’armatura. Di sicuro una tua passeggiata per la città desterebbe troppa attenzione. E forse è troppo chiederti spiegazioni”.

“Si, è troppo e troppo difficile da spiegare, ma se mi aiuti posso offrire un posto sicuro per te ed i tuoi amici”. Ombra lanciò l’offerta e attese.

“Mi hai salvato dai sicari e capisco che potresti uccidermi in qualunque momento, ma non lo hai fatto, ed io sono in un mare di guai, quindi devo fidarmi di te. Va bene, ti aiuterò, ma devo sapere tu chi sei e quale è il posto sicuro che mi stai offrendo?”.

“Ho una piccola fortezza ad est a circa dieci giorni da qui. È un po’ malmessa ma, con un po’ di aiuto, si potrebbe trasformare in un buon rifugio”.

“Non ci sono fortezze ad est, neanche mal messe. In quella direzione si va verso il territorio dei nani e non conosco alcun signore con un feudo da quelle parti. Ci sono solo piccoli villaggi di contadini prima di arrivare alla Porta dei Nani”. Kila si rabbuiò. “Raccontala meglio straniero”.

“E va bene. Io sono il signore della Guglia Nera”. E le mostrò l’anello preso dal feretro del vecchio signore.

“Fuggo dagli assassini e mi ritrovo con un demone. Così si spiega la tua abilità in combattimento e le tue stranezze”. Sospirò Kila. “La tua spada è incantata vero? Tu evochi vecchie leggende di terrore. E va bene, non so come sia possibile e non ho il coraggio di farti altre domande, le tue risposte potrebbero non piacermi, ma per quanto mi riguarda, mi hai salvato la vita e preferisco allearmi con un demone che finire ammazzata in questa latrina di quartiere. Però non so come la prenderanno gli altri”.

La mia offerta è onesta”. Disse Ombra fissandola negli occhi.

“D’accordo, ma non far vedere troppo quell’anello in giro o, al posto di qualche sicario, ci troveremo addosso l’intera guardia cittadina. E ora andiamo, la notte è breve e abbiamo ancora troppe cose da fare. Per prima cosa andremo dal mio ricettatore”. Disse Kila uscendo da casa ed incamminandosi tra i vicoli bui. “È il più onesto che conosco, se mi sono spiegata… Non abita lontano da casa mia ed ai miei amici la vista di un po’ di oro farà sicuramente colpo”.

Dopo un breve tragitto guardingo e silenzioso i due arrivarono in un vicolo cieco, se possibile, più buio e sporco degli altri. Kila tirò una cordicella che pendeva su una porta sgangherata. Non si udì alcun suono, ma dopo qualche istante la porta scattò e si aprì di uno spiraglio. Entrarono dentro rapidamente e la richiusero alle loro spalle.

L’ingresso era buio e stretto ma una fioca luce filtrava da una tenda in cima ad una breve scala. Scostata la tenda si trovarono in una larga stanza pervasa da una luce soffusa. Un uomo grasso in vestaglia, che giaceva su un largo divano spiluccando frutta secca da un vassoio, gli fece cenno di sedersi su due poltroncine. “Il negozio è aperto e siamo qui per fare affari”. Sentenzio il ricettatore, pio si rivolse alla ragazza. “Ciao Kila, non credevo di vederti. Corrono strane voci, qualcuna diceva che eri già morta”.

“Come puoi vedere, Raskan, sono solo chiacchiere”.

“Sarà, ma se vuoi i miei servigi sbrigati e vedrò di trattarti il meglio possibile in ricordo dei tempi passati, ma poi vai via in fretta. Mi spiace ma i guai sono nemici degli affari. Allora, cosa mi hai portato”.

“Non io, ma il mio amico chiede i tuoi servigi”.

Gli occhi di Raskan si posarono rapaci ed inquisitori su Ombra. “Amico, parola grossa per uno sconosciuto mai visto in città. E non cercare di rifilarmi qualche stupida storia straniero, non accade nulla in questa città senza che mi arrivi qualche voce e tu sicuramente sei nato in questa notte infame. Ieri non esistevi a Talen. Nel mio mestiere non si fanno troppe domande, ma si devono capire subito molte cose e tu… Tu sei strano e pericoloso. Una notte interessante. Posso chiedere con chi ho sto trattando?”.

“Sono Ombra”.

“Come sospettavo sei un’ombra. Bene Ombra, cosa posso fare per te?”.

Ho alcuni beni di famiglia da vendere a chi sa apprezzare questi oggetti antichi”. Disse Ombra. “E tirò fuori l’argenteria presa nella rocca”.

Il ricettatore cominciò a valutarli con attenzione uno ad uno. “Antichi, molto antichi e di ottima fattura. Devi essere di famiglia nobile… E venire da molto lontano. Devo dedurre che questi oggetti non hanno parenti in città che si possano dolere della loro vendita?”.

“Puoi stare sicuro. Sono puliti”.

“Sempre più interessante. Posso farti un buon prezzo. Hai altro?”.

“Si, queste pietre”. Ombra estrasse dal sacchetto delle monete le pietre preziose.

Gli occhi di Raskan si fecero ancora più attenti.

Kila mi sorprendi sempre di più. Ti credevo morta e mi arrivi in casa con un ricco nobile. Il tuo amico sembra pulito, ma tu scotti, se mi venite incontro con il prezzo possiamo fare un buon affare”.

“Quanto….incontro?”. Chiese Kila.

Fiutando l’affare Raskan cominciò un ragionamento meditabondo: “Diciamo che se la vendite avvenisse in una situazione normale potrei darvi fino a….vediamo..sessanta pezzi d’argento per l’argenteria e centocinquanta pezzi d’oro per le pietre, ma vista la situazione..facciamo cinquanta pezzi d’oro per tutto”.

“Andiamo via Kila”. Disse tranquillamente Ombra, e cominciò a raccogliere la merce sparsa sul tavolo.

“Senza fretta”. Incalzò il ricettatore. “Non credo che altri possano essere ben disposti verso di voi quanto me in città. Vero Togar”. A quelle parole un gigante si fece avanti da dietro una tenda. Era un mercenario grosso come un bue selvaggio con al fianco daga e mazza chiodata. I muscoli si gonfiavano mentre contraeva le mani e ruotava, con uno scricchiolio di scioglimento, la testa.

“Kila conosci Togar, la mia guardia del corpo? Si innervosisce quando i miei clienti diventano scortesi”. Disse mellifluo Raskan mentre guardava avidamente il tesoro sul tavolo. “Sono sicuro che vorrete rivedere la mia offerta. Non andavate di fretta?”.

Ombra si limitò a spostare la mano in una posizione migliore per estrarre la spada, mentre Kila sibilò: “Attento Raskan questa volta nella tua rete potrebbe essere finito un drago di palude e non un pesce”.

Togar tentò di aggirare il tavolino impugnando sia la daga che la mazza. Ad Ombra bastò toccare l’elsa della spada perché nascesse quella simbiosi che gli stava diventando familiare. L’arma scivolò fuori dal fodero ad una velocità incredibile, tranciò di netto la mano sinistra del gigante e si abbatté di piatto sulla sua tempia facendolo cadere al suolo tramortito.

Ti avevo avvisato Raskan”. Disse Kila. “Ed ora, torniamo agli affari. Quanto hai detto che eri disposto a pagare?”.

“Ho solo cento pezzi d’oro e cinquanta d’argento, se volete essere pagati subito, mi deve rimanere qualche cosa in cassa per gli affari. Domani potrei farvi una offerta migliore.” Azzardò pallidissimo.

“Stai diventando troppo avido Raskan. Pagaci quello che hai e…. Ancora una cosa Raskan”. Aggiunse Kila pensierosa. “Il mio amico si e macchiato i vestiti, cosa hai in mezzo a tutta questa roba per permettergli di cambiarsi? Non vorrai che si parli male della tua ospitalità, vero?”.

Il ricettatore divenne paonazzo, ma indicò alla ragazza una cassa. Rapidamente Kila vi frugò dentro prendendo alcuni capi di abbigliamento che infilò in un grosso sacco trovato li vicino.

Ora il prezzo è giusto”. Disse soddisfatta. “Senza che torniamo a disturbarti domani. Sai com’è, potresti farci una offerta garantita dai sicari di Golais”.

“Cerco di fare al meglio i miei affari, ma sai che se tradissi i miei clienti nessuno mi riterrebbe più attendibile”. Farfuglio il mercante mentre porgeva due sacchetti tintinnanti ai suoi ospiti.

Ombra li prese e li infilò nella sua sacca. “Il nostro primo incontro non è stato dei migliori spera che il prossimo sia più cordiale. E salutami il tuo mercenario se sopravvive”.

Si girò ed uscì rapidamente con Kila.

“Sono tutti così i tuoi amici?” Disse appena furono tra i vicoli.

“Solo quelli troppo avidi e tu non mi avevi detto che ti portavi dietro una piccola fortuna. Ora dobbiamo sbrigarci a raggiungere i miei compagni che dovrebbero essere in un posto relativamente sicuro”. Rispose Kila affrettando il passo. “Raskan ci venderà al Viscido appena possibile per poter rientrare delle spese della nottata e tu non passi inosservato. A proposito, sei velocissimo con la tua spada, come mai non hai ucciso il mercenario?”

“Non ce n’era alcun bisogno”. Rispose laconico Ombra.

4

4

Il luogo dell’appuntamento era una misera locanda al limitare della zona portuale verso la campagna, Il Porco Violaceo.

Era quasi l’alba quando Ombra e Kila la raggiunsero.

All’interno un avventore dormiva ubriaco con la testa appoggiata sul tavolino, dall’altra parte della sala, un poco discosti dal camino col fuoco ormai ridotto a brace, sedevano tre uomini col volto coperto dai cappucci delle mantelle.

Kila si avviò stancamente verso di loro.

“Brutta nottata eh?”. Disse uno di loro. “Direi faticosa e movimentata”. Ribatte Kila buttandosi a sedere. “Questo è un amico con le ali ai piedi come noi ed ha una proposta da farci. Dov’è il Guercio?”.

“Ha smesso definitivamente di guardarsi intorno, con lui sono caduti Vosta ed il Sorcio e noi li seguiremo presto se non troviamo una via d’uscita rapidamente”. Sussurrò un altro.

“E gli altri?”. Si informò la ragazza, bevendo da uno dei bicchieri posati sul tavolo. “Sono tutti nelle stanze di sopra che dormono, esclusi Ibel e Devin che sono spariti. Mancavi solo tu. Chi è questo tuo amico”. Aggiunse l’uomo accennando verso Ombra . “E cosa ci offre?”.

“Ombra, questi sono Corto, Rasmus e Vide”. Kila fece le presentazioni. “Ombra ci offre un rifugio nel suo feudo e, se ho capito bene, un una sorta di ingaggio”.

“Morto il Guercio possiamo seguire chi vogliamo, ma chi ci dice che questo sconosciuto non sta mentendo per infilarci in una trappola e, comunque, perché vorrebbe portarsi a casa una banda di ladri?”. Ribatté Vide.

“Mi ha salvato la vita, ha mostrato di avere mezzi ed ha bisogno di disperati come noi”. Fece una pausa significativa prima di continuare. “Corto attento a non essere avido. Questo è un guerriero molto particolare”. Kila scandì le parole fissando con attenzione prima il ladro che aveva davanti poi gli altri due. “Quindi niente idee strane. Prendere la sua offerta o lasciare e amici come prima. Pensateci con calma e sentite anche gli altri mentre noi ci riposiamo. Abbiamo un bisogno terribile di dormire e prima della prossima notte non ci si può muovere, quindi c’è tutto il tempo di valutare la proposta”.

Per rimanere vivi lo seguiremo anche a casa dei demoni di Agon”. Rispose Rasmus facendo un segno di intesa allo straniero per mostrare che aveva capito il messaggio della ragazza.

“Non sai quanto sei vicino alla realtà, amico mio”. Bisbiglio Kila mentre si avviava verso l’oste mezzo addormentato su uno sgabello. “Quale stanza hai libera?”. Gli chiese. “La quarta”.

Si svegliarono nel primo pomeriggio del giorno seguente.

Si erano addormentati vestiti su un lettone scomodo ma sufficientemente pulito. Kila si era alzata per prima e si stava lavando quando Ombra apri gli occhi e si mise a guardarla con la calma mancata la notte precedente. Era una bella donna anche se il corpo segnato da cicatrici ed i muscoli forti e scattanti parlavano di una vita difficile e dell’abitudine all’uso delle armi.

La ragazza si accolse di essere guardata e gli si rivolse senza timidezza. “Come si sente il mio signore dopo un buon sonno? Non è ancora finita, ma questa è la prima dormita come si deve che mi sono fatta da svariati giorni. Sbrigati a vestirti che ho fame”.

Quando Ombra si alzò, dolorante per aver dormito con l’armatura, e si spogliò per lavarsi fu la volta di Kila di valutarlo.

Non particolarmente alto e con muscoli affusolati che denotavano agilità, anche lui aveva cicatrici da armi, ma quando si voltò mostrò la schiena segnata dalle frustate.

“Niente male, amico. Forse un po’ magrolino”. Disse sfrontata Kila. Poi divenne seria. “Sei stato un ladro e ti hanno preso vero?”. Era più una affermazione che una domanda.

È vero”. Rispose calmo Ombra senza voltarsi. “Ha qualche importanza?”.

“Figurati”. Rise Kila.”Questo spiega molte cose, compreso perché mi hai aiutato. Ti eri accorto da subito di chi ero, sei abituato a gente come me ed i miei compari”.

“Io avevo bisogno di qualcuno come te e tu ed i tuoi amici avete bisogno di uno come me”.

“Per quel che mi riguarda sai che è già affare fatto, ora sentiremo gli altri. Certo sono ben curiosa di sapere come ha fatto un ladro a diventare il signore della Guglia Nera, magari un giorno mi racconti tutta la storia”. Butto là Kila guardandolo negli occhi. “Magari”. Si limitò a rispondere Ombra con un mezzo sorriso.

“Molto bene uomo del mistero, ma adesso vediamo di migliorare il tuo aspetto, quella roba da orco che porti addosso puzza da schifo”. Disse Kila ridendo mentre apriva la sacca con i vestiti presi da Raskan. “Ovviamente mi sono permessa di prendere qualche cosa anche per me” Sogghignò la ragazza. 

Per entrambi aveva preso dei pratici e robusti abiti di cuoio nero, morbido e di ottima fattura. Calzoni, giustacuore e stivali. La biancheria era di un prezioso tessuto sempre nero, non mancavano due lunghi mantelli impermeabili con cappuccio che li avrebbero coperti completamente. “Perfetti per la notte”. Sorrise Ombra guardando il risultato.

“Aspetta”. Aggiunse Kila compiaciuta. “Ho anche un mio regalo per te”. Ed estrasse dalla sacca uno splendido fodero ricamato d’argento. “Era li abbandonato”. Ghignò complice. “Una simile spada ha bisogno di un fodero adeguato”.

“Sei piena di sorprese donna”. Ribatté Ombra ammirando il magnifico oggetto. “In fondo Raskan è stato generoso”. E scoppiarono a ridere.

Quando scesero nella sala comune della locanda il camino era acceso e le imposte erano chiuse, anche se era solo primo pomeriggio. L’oste aveva appeso fuori un cartello che dichiarava chiusura per disinfestazione, così da tenere lontani clienti inopportuni.

Non c’erano, quindi, avventori se non i resti della banda del Guercio, radunati intorno ad un lungo tavolo, che stavano discutendo.

L’oste aveva colto al volo l’occasione e stava ripulendo la sporca sala insieme ad un garzone e rumori di pentole e stoviglie venivano dalla cucina.

All’apparire dei due amici tutti si fermarono a guardarli con ammirazione. “Questa notte sembravi un disperato straniero”. Disse Vide. “Ma vedo che sei un vero signore e tu Kila hai già scelto da che parte stare, mi pare”. Aggiunse rivolto alla ragazza.

“Puoi esserne certo Vide. Siete voi che dovete dirci cosa volete fare, vi è stato lasciato tutto il tempo possibile per decidere. Questa notte ci squagliamo, insieme o ognuno per la sua strada. La mia va ad est con Ombra”.

I compagni si guardarono l’un l’altro poi uno si fece portavoce. “Io sono Bor”. Si presentò il ladro ad Ombra. “Sappiamo di non avere molta scelta, ma devi capire anche i nostri timori. Alcuni di noi sono già morti e, pure se Kila evidentemente si fida di te, abbiamo troppe domande senza risposta. Ammettendo che la tua offerta sia vera e non una trappola del Viscido o del Laido”. Continuò Bor. “Tu stesso come fai ad essere sicuro che arrivati a questo tuo rifugio o fortezza non ti uccidiamo e ci prendiamo tutto? Anche se sei un forte guerriero noi siamo molti”.

Sei onesto nel parlare e quindi ti risponderò onestamente”. Rispose lentamente Ombra. “Non c’è alcuna trappola e vi offro un posto realmente sicuro, ma solo dei disperati potrebbero accettare la mia offerta perché, se aveste scelta, dubito che verreste con me”. Lasciò scorrere lo sguardo su tutti i presenti.

Io sono il nuovo signore della Guglia Nera”.

A quelle parole un brivido percorse tutti i presenti nella stanza. Avevano davanti un negromante uscito da una leggenda che ancora incuteva timore.

“Ora potete capire perché mi sento sicuro. Inoltre conosco la gente come voi per averci vissuto insieme per la maggior parte della mia vita. Se accetterete sarete i miei uomini e non romperete il vincolo della fratellanza di banda, non vi converrebbe”.

Il silenzio scese sui presenti che si stavano rendendo conto che una volta accettata l’offerta avrebbero stipulato un patto senza ritorno.

“Questa notte eravate pronti a seguire i demoni di Agon per salvarvi la pelle”. Sbottò Kila. “Bene un demone vi offre vitto e alloggio”.

“Senza un rifugio sicuro siamo morti. Ma si, che abbiamo da perdere?”. Acconsentì Bor raccogliendo il consenso degli altri.

“Bene. Questa è fatta”. Disse pratica Kila. “Come siete organizzati?”.

“Abbiamo stabilito come punto di ritrovo il crocevia del Vecchio Montone”. Spiegò Bor. “È quel posto tranquillo e riparato, appena fuori città, dove ci si incontrava con i bracconieri. Pensavamo di attraversare il fiume da qualche parte ad est di Talen. Se tutto fosse andato liscio avremmo cercato di passare lo Stram e fuggire a sud. Se lo aspetteranno visto che è l’unica possibilità che avevamo con il porto di Elmar chiuso dai contrabbandieri. Quindi ad est va bene lo stesso, si cambia solo la destinazione e questa davvero non la sospetteranno mai”. Sogghigno Bor. “Abbiamo deciso di raggiungere il crocevia a gruppi di due o tre. I meno conosciuti di noi sono già andati avanti per controllare che non ci siano pericoli. Appena calerà la sera partiranno anche gli altri. Ogni gruppo per una via diversa. Dovremo essere lì tutti prima della mezzanotte per poter mettere più strada possibile tra noi ed eventuali inseguitori”.

“Mi sembra un buon piano”. Convenne Ombra. “Io e Kila saremo gli ultimi, se non ce la facciamo tornate al piano originario. Ed ora mangiamo qualche cosa”. Disse rivolto a Kila.

Stavano nervosamente aspettando che arrivasse il momento di cominciare a muoversi quando esplosero delle urla in cucina. Una ragazza scarmigliata piombò nella sala sbattendo contro i tavoli inseguita dall’oste e da una grassa megera che doveva essere sua moglie. “Andiamo via. Io e mio fratello andiamo via”. Stava gridando la ragazza quando inciampò e cadde a terra. Subito l’oste gli fu addosso colpendola con un manrovescio in pieno volto, che non doveva essere il primo visto che la ragazza aveva un occhio nero ed un labbro sanguinante. “Brutta sgualdrina ingrata”. Gridava di rimando la megera, battendola con un bastone. “Voi non andate da nessuna parte”.

Bor e Corto saltarono in piedi cercando di bloccare la baraonda. “State zitti disgraziati. Siete impazziti. Vi farete sentire da tutto il porto”. 

 

 “Quella è Lua, ha un fratello un po’ tardo, ma forte come un bue”. Spiegò rapidamente Kila a Ombra. “In cambio di vitto e alloggio l’oste e la moglie li fanno sgobbare come bestie e lei la costringono a prostituirsi con i clienti”. 

“Sono due anni che li manteniamo a sbafo”. Stava continuando l’oste. 

“Ora basta!”. Scattò Ombra alzandosi e raggiungendo rapidamente l’oste e la moglie. “Non una parola di più razza di animali”. I due indietreggiarono prontamente sotto lo sguardo gelido dell’uomo. La ragazza gli si strinse ad una gamba. “Portaci con te signore, siamo buoni lavoratori”. Lo supplico tra le lacrime. “Portaci con te. Ti prego”.

Ombra fisso l’oste e gli sbatté una moneta d’oro in mano. “Questo è per il vostro disturbo. I due sono riscattati. Giusto?”. Il suo sguardo non ammetteva repliche.

“Certo signore. Sicuro signore”. Ripeteva l’oste tenendo stretta la moneta d’oro ed inchinandosi untuosamente.

“Ora vattene. Te e tua moglie”. E rivolto alla ragazza. “Prendi le tue cose e raggiungici immediatamente con tuo fratello. E niente più grida”.

“Perché questa generosità. La loro vita è dura, ma avrebbe potuto essere peggio”. Gli disse Kila guardandolo interrogativamente. “Per noi potrebbero essere un peso e potrebbero morire”.

“Non sopporto di veder bastonare una persona”. Si limitò a rispondere Ombra. E Kila ripensò alle cicatrici che aveva visto sulla sua schiena.

5

5

I primi due gruppi si erano già avviati a distanza di pochi minuti uno dall’altro. Vide, Rasmus e un ragazzo magro e nervoso di nome Jod si avvicinarono alla porta. “Buona fortuna”. Augurò Vide a Kila e Ombra. “Ci vediamo al crocevia”. E scomparvero rapidamente tra le ombre della notte.

Per ultimi, Ombra e Kila si avvicinarono alla porta seguiti da Lua e dal fratello Jasper, un ragazzone che si era caricato sulle spalla una sacca con i pochi averi suoi e della sorella.

Erano appena usciti quando Vide gli corse incontro seguito dagli altri due compagni. “Stanno arrivando alla locanda”. Disse trafelato. “Ci sono quasi addosso. Al diavolo la prudenza, filiamo dritti fuori da questa trappola”. E si mise a correre tra i vicoli seguito dal tutti gli altri.

Stavano correndo da qualche minuto quando sentirono rumori provenire da davanti a loro. Piombarono in una piazzetta e videro gli altri loro compagni che si stavano ritirando combattendo. Li raggiunsero rapidamente con le armi in pugno.

“Ci aspettavano”. Gridò Bor, che sanguinava da un taglio al volto. “Vecchio e Jela sono caduti”.

Nello stesso istante gli inseguitori li raggiunsero anche alle spalle. Erano troppi.

“Presto da quella parte”. Gridò Kila infilandosi in una stradina laterale che portava fuori dalla piazzetta.

Dopo pochi metri i compagni si arrestarono sgomenti. Era un vicolo cieco.

Ombra si voltò e si avviò con calma verso l’ingresso del vicolo, spada in pugno.

Il primo aggressore cadde immediatamente. I due che lo seguivano furono falciati da un solo terribile colpo mentre la spada prendeva vita.

Colpo su colpo Ombra si fece largo tra gli avversari seminando morte. La spada lampeggiava.

Mentre Ombra affrontava gli assalitori, un sicario cominciò cautamente ad aggirarlo.

Lua si mise a correre gridando. Raccolse una mazza da un dei caduti e l’abbatte a due mani sulla nuca dell’aggressore continuando a colpire istericamente mentre il corpo cadeva a terra senza vita. Poi si guardò intorno in cerca di un nuovo avversario.

Kila le fu subito al fianco con le sue lame sguainate. “Ferma. Non avanzare”. L’avverti. “Restiamo indietro, altrimenti lo intralceremo, e guardiamogli i fianchi. Non far passare nessuno”.

Gli aggressori, forti del numero, lanciarono un assalto in massa. Ombra aumentò il ritmo dei colpi. La spada mandava lampi e dalla lama si alzò un terribile lamento. A questo punto gli assalitori avrebbero voluto fuggire, ma era troppo tardi. Quell’unico avversario, che era sembrato una facile preda, si era trasformato in un demone che seminava morte ad ogni colpo. I sicari più lontani, che ancora non avevano ingaggiato il combattimento, si voltarono e fuggirono in preda al panico. Quelli più vicini non riuscirono neanche a girarsi per darsi alla fuga. In pochi istanti caddero falciati al suolo. Un ultimo avversario si voltò un istante mentre fuggiva e lasciò partire un dardo da una balestra a mano.

Ombra si accascio sulle ginocchia in mezzo ai cadaveri dei nemici, con la testa china sul petto.

Lua lo raggiunse piangendo, ma Kila la spostò rudemente. “Fermati sciocca e ferito”. La quadrella era piantata nel braccio sinistro di Ombra, ma Kila sapeva che non era quella ferita a prostrare l’amico.

“Ora ti farò un po male”. Sussurrò la ragazza. Afferrò il dardo con mano ferma e con un colpo deciso di daga recise l’impennaggio. Posò il piatto della lama sulla parte di legno che ancora spuntava dal braccio e ci piantò una secca ginocchiata.

Ombra si contrasse ed emise un gemito di dolore. Lua lo abbracciò da dietro protettiva, sostenendolo.

Ora la punta fuoriusciva da dietro il braccio. “Forza ho quasi finito. Non abbiamo tempo per i ricami”. Lo incoraggiò Kila. Afferrò saldamente la punta e dette un secco strattone. “È fatta. Non morirai questa notte guerriero”. Gli disse dolcemente mentre gli fasciava la ferita e gli appendeva il braccio al collo.

Gli altri erano intanto usciti dal vicolo e guardavano attoniti ora Ombra ora la carneficina che si era lasciato attorno.

“Non credo che torneranno questa notte”. Disse Bor guardandosi attorno incredulo. “Non credo che torneranno mai più”. Bisbigliò Jod con gli occhi sbarrati.

“Ce la fai ad alzarti?”. Chiese Kila ad Ombra che annuì debolmente. “Aiutami Lua sostienilo da destra”. Disse, mentre lo prendeva da sinistra per il gomito ed il fianco. “Andiamo, piano piano”.

Quando giunsero al luogo dell’appuntamento ebbero una altra sorpresa.

Lo spiazzo ai lati del crocevia del Vecchio Montone era pieno di gente. Là un carro attaccato ad un mesto mulo, dall’altra parte una famiglia seduta tra i loro poveri bagagli. Un carro coperto aggiogato a due magri buoi aspettava nel mezzo dell’incrocio. Sembrava che tutti i diseredati di Talen si fossero dati appuntamento lì.

Un paio di uomini della banda corsero incontro agli amici gridando. “Tranquilli, è tutto a posto”.

“Ma chi è tutta questa gente?”. Chiese Bor perplesso.

“Scusa Bor”. Cominciò a spiegare un ladro di corporatura piccola e nervosa, che si chiamava Derin. “Temo che a qualcuno sia scappata qualche parola di troppo. Non so bene. Lo Svelto ha parlato con i suoi vecchi. Erla si è confidata con il cugino. Insomma”. Bofonchiò strascicando i piedi. “Sai come vanno queste cose. Magari anche qualcuno di voi ha detto qualche parola ad un parente o ad un amico”.

Un vecchio venne a trarlo d’impaccio. “Siete voi il signore che ha promesso protezione e terre da coltivare? Siamo tutti buoni lavoratori”. Bor era stupefatto. “Non sono io. È quello lì, quello con cui dovete parlare”. Disse indicando Ombra che si era pian piano ripreso ed ora avanzava poggiandosi alla sola Lua che non si era voluta staccare da lui. Kila li affiancava protettiva.

“Signore è vero quello che dicono”. Chiese il vecchio. “Non riesco più a pagare l’affitto della terra, ma sono un buon contadino, non vi pentirete se mi darete un campo da coltivare. Ci accontenteremo di poco, la mia famiglia non consuma molto”.

Lentamente Ombra fece un giro tra i presenti. Tutti raccontavano una storia comune di miseria e soprusi. Tutti cercavano una nuova possibilità.

Il colmo fu quando raggiunse il carro con i buoi. “Tu chi sei?”. Chiese alla ragazza che sedeva a cassetta in paziente attesa. “Sono Roda, la figlia di Evan fabbro”. “Finalmente una buona notizia”. Pensò Ombra, quando da dietro il carro emerse un omaccione con un braccio solo. “Ah mi pareva strano aver avuto un colpo di fortuna, il fabbro è monco”.

L’uomo si rese conto dei pensieri del guerriero. “Anche con un braccio solo sono ancora un buon fabbro e poi mi aiuta Roda”. Ombra gettò un’occhiata all’interno del carro e sbracato contro l’incudine del fabbro vide un miserabile essere grassoccio, con una gamba di legno e totalmente ubriaco. “Sono un maestro d’armi”. Biascicò l’uomo con voce impastata ricadendo poi disteso.

Era davvero troppo. “Levategli ogni goccia di vino e appena possibile buttatelo dentro dell’acqua”. Ordino ai membri della banda più vicini. “Come vuoi Signore”. Rispose uno di questi. “Che dobbiamo farne degli altri”.

“Radunateli e mettiamoci in marcia”.

Bor gli si avvicinò. “Signore, non devi camminare. Ti ho fatto fare un po’ di spazio sull’altro carro e una donna ha detto di intendersi un po’ di ferite”.

“Bor”. Gli si rivolse Ombra fissandolo. “Cosa è questa storia del Signore”.

“Beh. Sei tu il Signore”. Disse Bor con imbarazzo. “Sai, dopo la storia del vicolo cieco. Gli uomini sono rimasti impressionati. Ti rispettano molto”.

“Mi temono vorrai dire”:

“No Ombra….Si forse…ma tu ci hai salvati da una morte certa, ci stai offrendo un rifugio. Fai paura è vero, ma tutti pensano che li proteggerai. Insomma credono che la fortuna sia girata per loro”. Spiegò Bor con imbarazzo. “Come questi altri poveracci sperano di avere la possibilità di una vita migliore. Dopo quello che hanno visto e subito nelle loro vite, un demone che li protegge è quanto di meglio possono aspettarsi. È vero quello che ci hai promesso, avremo un posto sicuro? E tu ci proteggerai?” Chiese con speranza negli occhi.

“Si Bor è tutto vero, ma non sono davvero abituato ad essere chiamato signore”. Disse Ombra guardandolo negli occhi.

Bor lo fissò con sollievo e gratitudine. “Ti seguiremo ovunque. Che tu lo voglia o no ora sei il nostro Signore”.

“Un ladro signore di ladri, mi sembra giusto”. Pensò Ombra sorridendo mentre la colonna si avviava.

6

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Il viaggio durò più del previsto.

Ombra dovette occuparsi dei vari problemi che gli vennero posti.

I contadini gli fecero sapere di avere bisogno di semi da piantare. I suoi uomini gli fecero notare che, se volevano mangiare carne e formaggi , avevano bisogno di bestiame. Il fabbro gli disse che gli attrezzi che si erano portati dietro, per i lavori dei campi e di carpenteria, erano pochi e mal ridotti.

Alla fine decisero di deviare un po’ la strada ed accamparsi hai margini della fiera contadina di primavera che si teneva ad uno degli incroci principali della zona ad est di Talen, dove confluivano gli abitanti dei villaggi della zona con le loro merci.

Contrattarono per tre giorni quanto gli serviva, Ombra pensò a pagare tutto. Ripartirono con un nuovo carro carico di attrezzi e sementi, una buona scorta di viveri e farina, un branco di pecore da lana e alcune vacche da latte.

Legato dietro al carro del fabbro avanzava un giovane toro.

Belieu, il maestro d’armi, lavato e ripulito, era stato tenuto d’occhio tutto il tempo per evitare che trovasse del vino.

Erano quasi arrivati alle pendici dei monti da cui partiva il sentiero per la Guglia Nera, quando la ferita di Ombra peggiorò.

In quel momento si ricordò della vecchia curatrice e della promessa fattale.

Piazzarono di nuovo l’accampamento.

Ombra fu messo a dorso di mulo e guidò, con qualche incertezza, Kila e Lua che lo accompagnavano, fino alla capanna nel bosco dove viveva la vecchia Nellie.

La donna lo riconobbe subito. “Ti sarai pure ripulito stregone mezzo orco”. Gracchiò Nellie sputando per terra per sicurezza. “Ma sei sempre lo stesso stupido. Ti sei fatto ferire ancora. Dai retta ad una vecchia. Lascia perdere le armi se non le sai usare”.

Kila e Lua guardavano la megera con gli occhi fuori dalle orbite. “E queste due chi sono, non sembrano orchesse”.

“Le mie guardie del corpo”. Buttò là Ombra.

“Bene, bene…Non sei proprio scemo allora. Se non sai combattere prenditi qualcuno che lo faccia per te. Donne meglio, sono meno stupide di voi uomini, infatti vedo che non hanno ferite. Certo sempre che non gli vengano le fregole”. Continuò a ciarlare la vecchia dirigendosi verso la porta della capanna. “Allora che fai entri o muori li?”. Si bloccò e si girò di colpo. “Spero bene che questa volta tu abbia portato qualcosa di bello per Nellie sennò invece di curarti ti trasformo in un porco peloso. E la spada resta fuori, chiaro?”. Ed entrò senza attendere la risposta.

“Sei sicuro di volerti far curare da quella pazza?”. Chiese Lua. “Tranquille ragazze. È un po’ sciroccata ma sa il fatto suo”.

Ci volle un certo tempo, ma alla fine la ferita era pulita e fasciata con un impacco di erbe ignote che la vecchia garantiva avessero capacità miracolose.

“Bevi questo per la febbre ed ora troviamo un posto dove farti dormire, con tre o quattro giorni di cure dovresti essere a posto”.

“Nellie non posso rimanere qui”. Le disse dolcemente Ombra.

“A bene già mi davi fastidio mezzo orco. Lo sai si che gli orchi puzzano? Fuori il mio regalo e vai a morire da un’altra parte”.Ribatté decisa la vecchia.

“Nellie sono venuto a prenderti come ti avevo promesso. C’è molta gente che ha bisogno delle tue cure”.

La povera donna lo guardò incredula. “Veramente mi porti nel tuo castello? Se la stai ingannando la povera Nellie ti fa venire la dissenteria e la gotta”.

“No, dico sul serio. E poi mi devi ancora curare no?”.

Ci volle del tempo, ma alla fine la vecchia si convinse che era vero. Ancora più tempo impiegò a preparare i bagagli. Non voleva abbandonare nessuno dei suoi tesori ed il mulo era gia stracarico. Alla fine la convinsero che una volta arrivati sarebbero tornati indietro a prendere le cose rimaste nella capanna. La parola delle ragazze fu più convincente di qualunque promessa Ombra potesse fare.

Tornarono al campo e la carovana riprese il cammino su per la montagna.

Finalmente una mattina di primavera arrivarono in vista della Guglia Nera.

 

Alla vista delle rovine Nellie sbottò. “Il tuo castello è più scalcinato della mia capanna, ma che mi potevo aspettare da un mezzo orco?”.

Sotto la guglia si stendeva un vasto altopiano che fu, invece, apprezzato dai contadini e proprio dalle loro case cominciò l’opera di ricostruzione. I campi dovevano essere arati e seminati e quella gente doveva avere un tetto sopra la testa prima possibile.

Alla base di una cascata che scendeva dai monti sovrastanti fu costruito il mulino.

La fucina del fabbro decisero di costruirla nella fortezza, così iniziò anche la ricostruzione della rocca.

Fu un periodo felice per tutti. Vedevano avverarsi sogni e speranze. Verso la fine dell’autunno anche parte del corpo principale della rocca era stato ricostruito, per dare riparo ad Ombra ed ai suoi uomini, e le vecchie cantine ristrutturate erano diventate magazzini pieni di cibo e foraggio.

Una volta assicuratosi un luogo caldo per affrontare i rigori invernali rallentarono il ritmo dei lavori. Durante la lunga stagione fredda avrebbero cominciato a ricostruire le fortificazioni sul versante nord da cui sarebbero potuti arrivare gli orchi.

Ma questi arrivarono prima.

7

7

Un pomeriggio di una fresca giornata autunnale Jod sedeva annoiato su un masso, cercando di godersi l’ultimo sole mentre stava di vedetta sul versante nord, quando vide del movimento molto più giù lungo il sentiero che si inerpicava verso il passo.

Corse immediatamente dagli altri. “Orchi. Gli orchi vengono su verso il passo”.

Nei mesi precedenti gli uomini avevano usato parte del tempo libero per allenarsi sotto la guida del maestro d’armi. In quanto ladri vissuti nell’ambiente violento dei bassifondi erano uomini avvezzi all’uso delle armi, ma la loro tecnica lasciava molto a desiderare. Rozza e casuale per la maggioranza di loro, più efficiente per qualche caso isolato come Kila, che aveva imparato l’uso delle due lame corte da un vecchio amante mercenario. Le lezioni di Belieu si erano rivelate, quindi, fondamentali per tutti, soprattutto per il maestro d’armi che, smesso di bere, stava ritrovando la sua dignità e la forza di superare la menomazione, ritrovandosi ancora utile agli altri.

Si esercitavano in uno stretto spazio cosparso di massi che una volta era stato uno dei terrazzamenti della fortezza. La caratteristica del luogo ed i passi di Belieu, che attaccava e schivava saltellando sulla gamba di legno, avevano fatti si che gli allievi si erano trovati a sviluppare una personalissima tecnica danzante fatta di rapidi salti e giravolte in equilibrio alternato su una sola gamba, utilissima sulle rocce di quelle montagne, e tale che i contadini che si fermavano ogni tanto a guardare gli allenamenti avevano battezzato la banda i Danzatori dell’Ombra.

Dopo il suo intervento nello scontro cittadino, Lua si era lanciata con accanimento nell’apprendimento della scherma. Ritenendosi la guardia del corpo personale del suo Signore, chiedeva continuamente spiegazioni al maestro d’armi e si lanciava in combattimenti di allenamento estenuanti con Kila.

Così quel giorno d’autunno, anche se lungi dall’essere dei veri guerrieri, i membri della banda corsero da armarsi e si schierarono fiduciosi tra le mura diroccate che sovrastavano il passo ai lati della vecchia postierla.

Anche se le difese erano mal ridotte si trattava ugualmente di uno stretto imbuto facilmente difendibile contro nemici numericamente superiori. Il sentiero sottostante si inerpicava stretto e pericoloso sulla ripida parete, senza offrire alcun riparo agli attaccanti.

Ombra, Bor, adesso suo luogotenente, ed il maestro d’armi, come consigliere tattico, si affacciarono per studiare la lenta salita dei nemici.

La scomparsa della pattuglia sterminata da Ombra aveva destato la perplessità degli orchi che ritenevano quel il versante dei monti, che si affacciava sui loro territori, sicuro. Lunghe ricerche avevano portato a quella vecchia pista che saliva verso il Passo del Negromante.

Tutti conoscevano le leggende e non capivano perché i loro compagni si fossero arrischiati per quella strada pericolosa, ma il segugio aveva trovato quella pista, quasi sbiadita ma inequivocabile, ed ora si inerpicava sicuro lungo il sentiero che portava alla vetta del passo maledetto seguito con prudenza dai guerrieri.

Non erano una banda di guerra ma si trattava comunque di una squadra piuttosto numerosa formata da una cinquantina di orchi.

“Gli arcieri”. Commentò Belieu. “Come?”. Gli si rivolse Bor. “Ci mancano arcieri. Con pochi di loro sarebbe un gioco da ragazzi fermare chiunque su quel sentiero. Dovremo addestrare i contadini e sistemare anche qualche pila di massi da scaricare di sotto”. Spiegò il Maestro d’Armi.

“Buona idea, ma per ora cosa facciamo”. Ribatté Bor.

“Niente, aspettiamo magari si fermano prima di arrivare in cima. La nomea di questo passo fa paura a tutti e gli orchi sono superstiziosi. Quando sono stato qui la prima volta ne ho ucciso una pattuglia”. Racconto Ombra, tralasciando molti particolari che non voleva rendere noti. “Ed ho gettato disotto i cadaveri. Se continuano a salire li incontreranno. Speriamo che la cosa li intimorisca a sufficienza da desistere”.

Il maestro d’armi lo guardò incredulo. “Hai fatto fuori una pattuglia di guerrieri orchi da solo?”.

“Credici”. Gli disse Bor. “Credici. L’ho visto combattere una sola volta e mi è bastato”. Mentre Belieu guardava entrambi perplesso, aggiunse. “Hai gettato i cadaveri sul sentiero. Buon deterrente, ma potrebbe anche farli infuriare. Se tra loro c’è qualche parente tutta questa storia si potrebbe trasformare in una faida di sangue”.

“Che vengano. Hanno troppo poco spazio per manovrare. La strettoia della vecchia postierla si trasformerà in una trappola mortale e se qualcuno si dovesse arrampicare sulle mura diroccate ci penseranno i ragazzi a ributtarlo giù”. Decise in fine Ombra. “Bor, passa voce a tutti di non farsi vedere per nessun motivo e di scegliere dei massi da far rotolare addosso agli orchi al mio comando”.

E così rimasero in paziente attesa.

Alla fine gli orchi trovarono i cadaveri, ormai consumati, dei loro compagni scomparsi e la cosa, vistosamente, non gli piacque. Si erano fermati e guardavano verso la sommità del passo discutendo animatamente. La fortezza era semi distrutta, le mura diroccate e non si vedeva segno di vita, ma i guerrieri erano palesemente a disagio. Chi o cosa aveva ucciso i loro compagni? Quegli stupidi non avrebbero dovuto risalire il sentiero del passo maledetto. D’altra parte dovevano fare rapporto al Consiglio dei Capi di Guerra. Cosa avrebbero detto, che una pattuglia era stata uccisa dagli spiriti che infestavano una fortezza in rovina? Quale era il motivo sconosciuto che aveva spinto i loro compagni a salire così in alto? Ad un tratto, un orco, che doveva essere al comando della squadra, prese una decisione e cominciò a spingere i guerrieri verso il passo con grida ed imprecazioni gutturali.

Gli uomini attesero nascosti, finché una piccola avanguardia di orchi si fu inoltrata nella strettoia formata dai resti del torrione nel quale si apriva la postierla. Ombra diede l’ordine di attacco e si lanciò contro i nemici.

Immediatamente la spada cominciò a reclamare le sue vittime. Ombra si sentiva male ad ogni uccisione, ma stava cominciando a dominare il profondo dolore che sentiva. Non lo poteva cancellare né ci si poteva abituare, poteva solo accettarlo per quello che era. Il prezzo da pagare per ogni vita che spegneva. Con gli orchi era un po’ meno duro, forse per la differenza di razza, ma sempre sconvolgente.

I suoi uomini cominciarono a lanciare massi sugli orchi che si affollavano più in basso facendone precipitare molti nella scarpata. Questi ultimi presi dal panico e dalla furia di guerra si lanciarono con violenza nella strettoia costringendo Ombra ad arretrare verso il retrostante spazio aperto.

Kila e Lua si materializzarono immediatamente ai suoi fianchi. Mentre lui affrontava i nemici frontalmente le due donne creavano un muro di ferro che impediva a chiunque di aggiralo.

Mentre arretrava lentamente, sotto la spinta degli orchi, Ombra cominciò a combattere furiosamente per la propria sopravvivenza. Questi non erano semplici ladri ma possenti guerrieri addestrati per la guerra. Man mano che il combattimento aumentava di intensità la spada prendeva sempre più vita. Quando i tre si trovarono a combattere spalla a spalla ormai circondati dagli orchi, la spada cominciò a mandare lampi azzurri sempre più violenti e dalla lama sorse il raccapricciante lamento delle anime morte.

Il resto dei difensori stava respingendo gli assalitori che, come previsto, si erano arrampicati sulle mura in rovina.

Improvvisamente lo scontro finì. I difensori, che erano riusciti ad uccidere o ricacciare indietro gli orchi che si erano arrampicati sulle mura diroccate, si lanciarono alle spalle del grosso del nemico che circondava Ombra e le due ragazze. Gli orchi cedettero al terrore istigato dalla spada terribile ed alla paura di finire circondati. Così, i pochi superstiti, fuggirono lanciandosi a corsa folle giù per il sentiero da cui erano saliti poco prima.

Avrebbero fatto rapporto riportando che il negromante ancora vigilava sulla Guglia Nera.

Era stata una vittoria schiacciante, solo uno dei difensori era caduto mentre la maggior parte degli orchi giaceva sul campo. Ombra aveva sostenuto lo scontro quasi da solo conquistandosi la stima, incredula, del maestro d’armi. Anche Lua e Kila, che si erano battute al suo fianco, ebbero la loro parte di gloria, gli uomini le battezzarono le Furie. Tutti e tre erano ricoperti di ferite, ma, mentre la strana armatura di Ombra aveva assorbito la maggior parte dei colpi, le condizioni delle due ragazze destavano preoccupazione. Dopo essersi battute come berserker, al calare della tensione dello scontro, si erano accasciate ricoperte di sangue. Ombra era prostrato, come le altre volte, dal terribile dono della spada.

Anche altri combattenti erano feriti più o meno gravemente. Si erano battuti tutti con coraggio ma il maestro d’armi aveva ancora molto da lavorare per migliorare la loro tecnica di combattimento.

Nellie ebbe molto da fare quella notte.

Tutti i feriti furono portati nella sala principale della nuova casa della curatrice.

A causa delle veementi richieste della vecchia megera era stato uno dei primi edifici ad essere terminato ed era anche uno dei più grandi. Costruito direttamente nel corpo della rocca comprendeva la sala principale, una cucina e una comoda stanza da letto, aveva anche un piano inferiore, che occupava una parte delle vecchie cantine della fortezza, perfetto come laboratorio e magazzino per le erbe e pozioni della donna.

Nellie continuava a lamentarsi dei disagi in cui doveva vivere, ma in realtà era molto fiera della sua nuova sistemazione e del prestigio che aveva acquisito all’interno della piccola comunità.

Le sue capacità erano talmente apprezzate che tutti cercavano il suo aiuto e consiglio, sopportando con pazienza le stranezze della vecchia, che accettava comunque di buon grado i loro piccoli doni.

Soprattutto i contadini sembravano apprezzare la sua conoscenza della natura e si trovavano a loro agio con la sua saggezza legata alle tradizioni popolari che conoscevano, a differenza dell’aura di oscura magia che circondava il loro Signore, che accettavano, ma temevano.

Fra borbotti e battute salaci, Nellie li rappezzò tutti.

Mentre gli stava prestando le sue cure, Ombra dovette sopportare la strigliata della vecchia. “Razza di somaro, quando la capirai che devi evitare i combattimenti. Quelle due povere ragazze si sono quasi fatte ammazzare per salvare le tue inutili chiappe. Se non fosse che il nuovo camino che mi hai fatto costruire in questo tugurio fa meno fumo di quello vecchio, me ne sarei già tornata alla mia bella capanna nel bosco”.La vecchia continuava la sua invettiva senza sosta mentre lo ricuciva e bendava. “Solo ad un mezzo orco come te poteva venire in mente di attaccare briga con una intera banda di orchi. Hai coinvolto tutti in una bella lite con i tuoi parenti”. E continuò così finché non ebbe finito.

Nessuno riuscì mai a toglierle dalla mente che Ombra era uno stregone mezzo orco, rissoso ed inetto nell’uso delle armi.

L’accaduto convinse tutti della necessità di sistemare le fortificazioni del versante nord il prima possibile.

La prima gelata vide terminato il torrione che bloccava il passo. Al centro della struttura si apriva la stretta postierla. Il fabbro aveva costruito una saracinesca di ferro che calava davanti alla nuova porta rinforzata, rendendola praticamente insuperabile.

Lavorando tutte le volte che il tempo lo permetteva, i due bastioni laterali furono terminati nel corso dell’inverno.

Da nord la fortezza era ora imprendibile.

Finalmente erano tranquilli. Addossato alla parete sud della rupe su cui sorgeva la rocca giaceva al sicuro il piccolo villaggio dei contadini e degli artigiani. Con la buona stagione avrebbero potuto terminare il lavoro di ricostruzione della Guglia Nera in tutta serenità.

All’arrivo del solstizio di primavera organizzarono una grande festa per scacciare gli spiriti dell’inverno a cui parteciparono tutti, ma per la cena la banda si ritirò nella sala principale della fortezza dove avevano allestito un banchetto in onore del loro Signore.

Ombra fu fatto sedere su un comodo seggio a capo di una larga tavola a ferro di cavallo, dall’altro lato il fuoco scoppiettava in un grande camino. Ai suoi fianchi sedevano le immancabili Kila e Lua.

Quando arrivò la prima portata tutti si servirono.

Poi, ad uno ad uno, i presenti scelsero il boccone migliore dal proprio piatto e lo andarono a depositare in quello vuoto di Ombra.

“Noi non avevamo più nulla e tu ci hai dato quello che avevi senza chiedere nulla in cambio”. Disse Bor per tutti inginocchiandosi davanti ad Ombra. “Oggi ti offriamo tutto quello che abbiamo. Anche le nostre vite”. E tutti chinarono la testa in segno di assenso e rispetto. Poi sollevarono i bicchieri gridando. “Al Signore della Guglia Nera”.

Il giorno dopo, Ombra scese nella cripta sotto la rocca con Kila e Lua. “Qui è cominciato tutto ed in questo luogo deve tornare a riposare il signore di questa rocca”. Disse alle ragazze, che sentivano sulla pelle la magia che pervadeva il luogo. “Ricordatevi sempre che quando morirò il mio corpo dovrà essere deposto su questo altare, con l’armatura e la spada. Poi l’ingresso dovrà essere sigillato”.

“Stai tranquillo. Non dimenticheremo”.

Prologo – La Banda Di Guerra

1

 

L’accampamento si muoveva pigramente al sole autunnale. Le tende del campo da campagna erano state erette in una vasta conca tra le dolci colline del Sud Varan ad un giorno di marcia dai reparti combattenti. Quell’anno il tempo ancora buono, con il freddo del nord che tardava ad arrivare a causa dei capricciosi venti che continuavano a spirare dal sud ovest, aveva permesso il prolungarsi della campagna militare, che si era protratta stancamente per tutta l’estate tra schermaglie e spostamenti tattici inconcludenti. Le raccoglitrici, con i piccoli che correvano intorno schiamazzando, si erano sparse lungo le pendici delle colline della larga conca che ospitava il campo. I guerrieri anziani vigilavano pigramente le tende e lo spazio circostante mentre la squadra di caccia si era inoltrata nel bosco, che si affacciava sulla valle dalle alture settentrionali, in cerca di carne fresca.

Il giovane cacciatore era appollaiato tra i rami più alti di un gigante della foresta dove era stato lasciato con la scusa di cogliere il movimento della selvaggina sfuggita alle larghe maglie della linea di caccia. In realtà sapeva benissimo che era lo scotto da pagare a quell’età di mezzo tra i piccoli al seguito delle madri ed i giovani cacciatori che imparavano alla scuola dei veterani di guerra non più abili per il fronte. Giaceva semi appisolato tra le braccia di due grossi rami quando cominciò a percepire una sommessa vibrazione trasmessa dal suolo e dall’aria che andò aumentando rapidamente.

Sotto di lui la foresta si animò improvvisamente. Cacciatori in fuga venivano falciati da cavalieri che avanzavano al piccolo galoppo nella foresta. La scena appariva ai suoi occhi al rallentatore. Un cacciatore avanzava saltando massi e schivando tronchi mentre tentava di difendersi dall’inseguitore più prossimo. Troppi cavalieri. Due convergevano verso il cacciatore già incalzato dagli inseguitori, sbucando dai tronchi lo falciavano rapidamente per poi proseguire. Dall’altra parte una lancia incrociava un fuggitivo a metà di un salto. La cavalleria fluiva come acqua nel bosco, senza grida, rombando come un fiume in piena verso il campo ancora ignaro del pericolo.

Il sangue cominciò a pulsargli sempre più velocemente nelle orecchie, mentre le mandibole contratte digrignavano i denti. L’istinto lo spingeva a lanciarsi addosso agli assalitori. A colpirli, dilaniarli, ad uccidere, ma la sua mente lo paralizzò sui rami. Gli occhi assorbivano tutte le scene e lui cercava di raccoglierle in un quadro d’insieme che gli permettesse di comprendere l’intera azione.

Altri cavalieri comparvero sulle alture intorno alla conca mentre i primi uscivano dal bosco. La tranquillità del campo fu rotta dalle grida delle raccoglitrici con i loro piccoli e dal rombo, ormai assordante, di migliaia di zoccoli. I suoi occhi assimilavano le manovre all’unisono degli squadroni di cavalleria che volteggiavano sul campo di battaglia chiudendo ogni via di fuga ai fuggitivi, falciandoli come messi mature convergendo progressivamente verso il centro del campo. La resistenza dei guerrieri anziani fu breve e vana. Le tende già stavano bruciando.

Con la stessa rapidità con cui era apparsa e passata sul campo devastandolo la cavalleria si ricompattò e sparì nuovamente dietro le colline a sud come se la sua presenza fosse richiesta urgentemente altrove, senza neanche controllare morti e feriti.

Kvar scese lentamente dall’albero ed in trance si avviò verso i resti del campo.

Mentre stava per uscire dal bosco registro un movimento al limite del campo visivo. Un cavalleggero disarcionato, durante la cavalcata tra i tronchi, si stava faticosamente risollevando da terra. Rapido come solo un orco giovane può essere gli fu addosso e gli piantò il pugnale nelle reni mentre gli addentava la nuca scoperta. Il corpo del cavaliere si agitò per un attimo nella sua morsa ferrea poi giacque inerte. Con efficienza e precisione gli recise un orecchio e gli tolse lo scalpo, le zanne e le unghie degli uomini erano trofei troppo miseri.

Il suo primo sangue nemico non servì a placare il dolore e la rabbia per la carneficina che si stendeva davanti ai suoi occhi.

L’intera conca era disseminata di corpi di orchi. L’azione era stata così rapida ed improvvisa che ben pochi cavalieri erano caduti nello scontro. I corpi dei piccoli e delle femmine ricoprivano le pendici delle colline. I vecchi guerrieri, rispettati per saggezza e pieni di onori per le gesta passate, che si assumevano il ruolo di proteggere le famiglie delle truppe di linea avevano speso le loro ultime energie riuscendo a far pagare agli assalitori almeno un minimo tributo di vite.

Qua e là si vedeva qualche movimento. Un piccolo sopravvissuto protetto dal corpo della madre. Una femmina che si era gettata a terra prima del colpo fatale. Un paio di cacciatori feriti stavano uscendo dal bosco.

Il clan era stato distrutto.

Quel giorno gli orchi non avevano avuto il coraggio di allestire il banchetto funerario rituale temendo che il fumo delle pire potesse richiamare l’attenzione del nemico. Così, i pochi maschi superstiti, avevano potuto soltanto mangiare il cuore crudo dei guerrieri anziani, tributandogli almeno quell’onore, per essere certi che i loro spiriti continuassero a combattere con la tribù. Le femmine, dopo aver curato i feriti, avevano levato un mesto lamento funebre per poi mettersi a raccogliere quanto potevano dai resti del campo.

 

Quanta crudeltà si nasconde nel cuore di quegli esseri orribili e molli che sono gli uomini.

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Durante la notte e per tutto il giorno seguente continuarono ad arrivare i membri della banda di guerra scampati al massacro.

Dai loro racconti fu ricostruita la tragedia.

Quella che si era trascinata per due mesi come una pigra campagna militare estiva si era tramutata in un disastro. Il nemico aveva temporeggiato a lungo in attesa dell’arrivo dei rinforzi. Le unità di cavalleria leggera che pattugliavano la regione avevano ingaggiato scaramucce di alleggerimento mentre gli scarsi reparti di fanteria, che presidiavano gli avamposti, si ritiravano progressivamente e manovravano per riunirsi nelle guarnigioni nelle retrovie. Dal sud erano arrivate truppe fresche. Così che le bande di guerra degli orchi si erano improvvisamente trovato schierato davanti un intero esercito dell’Alleanza di Giada. La cavalleria pesante nemica aveva travolto l’unica unità dei Cavalieri d’Acciaio di supporto all’orda dei razziatori orchi. La cavalleria leggera, dopo aver devastato le retrovie delle truppe del Concilio del Nord, era arrivata da nord prendendo alle spalle gli scorridori a cavallo delle tribù delle steppe alleate del Concilio che si erano date alla fuga lasciando alla mercé del nemico i clan di fanteria degli orchi. La rapidità di questa manovra si era lasciata alle spalle i pochi sopravvissuti del campo della Tribù dei Nogar Krag e ne aveva distrutto la banda di guerra sul campo di battaglia insieme al grosso delle forze del Concilio del Nord.

Kvar era il terzo e più giovane figlio maschio del capo clan. Ora Kvar ar’Nogar, nuovo capo clan in assenza di successori riconosciuti, e unico sopravvissuto della sua famiglia. Suo padre ed i suoi fratelli maggiori erano caduti in battaglia, la madre e le sorelle al campo sotto i suoi occhi.

Nascosti nel vicino bosco attesero ancora un giorno gli ultimi sopravvissuti.

Kvar guardò sgomento i resti della sua tribù. Erano pochi, troppo pochi. Secondo le leggi, probabilmente, sarebbero stati aggregati a qualche tribù più forte che aveva subito perdite, ma finché lui era il capo avrebbe comandato la sua gente. Pur se giovane aveva il carattere deciso del padre ed aveva ereditato dalla madre una tendenza alla ponderazione inusuale in un guerriero degli orchi.

Nessuno avrebbe detto che era un codardo, ma gli altri lo guardavano con perplessità non riuscendo a capire le sue improvvise pause di riflessione. La sua mente rimuginava sulle informazioni a sua disposizione finché, ricostruito un quadro più grande, prendeva la decisione. E così fece anche quella volta. Valutò tutto quanto si ricordava del territorio ed interrogò i cacciatori rimasti. Poi comunicò a tutti la sua decisione.

La tribù doveva vivere per vendicarsi, così si sarebbero mossi verso i loro territori del nord lentamente compiendo un arco da est ad ovest per incrociare i campi delle tribù minori posti dietro quelle principali. Si sarebbero spostati di notte utilizzando tutti i ripari noti per riposarsi e dormire di giorno. Boschi, gole, grotte avrebbero attirato anche altri eventuali superstiti che avrebbe unito sotto le insegne dei Nogar Krag. Con un po’ di fortuna, al loro ritorno nei territori invernali, sarebbero stati a sufficienza per non essere cancellati.

La saggezza della decisione, e la sete di vendetta dei superstiti, suscitò suggestione e soggezione tra gli orchi. Il giovane figlio del capo, che aveva appena versato il suo primo sangue, era talmente saggio che lo spirito della tribù doveva essersi incarnato in lui. Questo gli evitò le possibili sfide per il comando. D’altra parte la situazione era talmente disperata che nessuno voleva versare altro sangue della tribù. Pochi, feriti, isolati in un territorio diventato improvvisamente ostile. La cavalleria leggera nemica pattugliava la regione e si aggirava in cerca di trofei e bottino.

I mesi che seguirono accelerarono il suo apprendistato di cacciatore. Tutti si muovevano come Segugi, seguendo piste e fiutando l’aria in cerca di nemici.

La prima tappa la fecero al campo di una tribù minore accampata poco più ad ovest di loro. Davanti a loro apparve uno sparuto gruppo di orchi, nella maggior parte femmine e piccoli, con un paio di cacciatori. La devastazione era stata quasi totale e nessun guerriero era ancora tornato indietro. Il giorno seguente raggiunsero un altro campo distrutto. Seguendo le tracce raggiunsero i superstiti, che si erano già avviati verso nord e si erano accampati per la notte, prima dell’alba.

Con loro passarono la giornata al riparo in una gola. Si scambiarono solidarietà nel dolore e doni rituali per suggellare la fratellanza nella vendetta.

Tutte le volte che avvenivano avvistate forze dell’Alleanza di Giada, Kvar voleva essere avvisato. Studiava con attenzione i movimenti delle truppe nemiche finché queste non uscivano dalla visuale cercando di rubare il segreto delle loro manovre all’unisono.

Il modo di combattere del nemico era molto diverso da quello che lui conosceva. Gli orchi usavano forza e coraggio. Le bande di guerra si riunivano in unità maggiori mantenendo ognuna la propria individualità. Ogni banda era formata da un numero diverso di unità basato sulla dimensione della tribù di appartenenza e dal numero di guerrieri che questa riteneva di volta in volta di mettere in campo. Al centro ed ai lati dello schieramento stavano le bande maggiori. A volte le bande minori si spostavano davanti allo schieramento per ottenere maggior onore. Se troppo piccole attendevano in retroguardia di poter raccogliere la gloria ed il bottino lasciatogli dalle altre sul campo.

Prima dello scontro eseguivano le azioni rituali propiziatorie. I vessilli dovevano essere mostrati al nemico e agli alleati perché sapessero chi stava per guadagnare onore in battaglia. La formazione lanciava il peana della tribù poi sfidava il nemico ad attaccare. Se l’avversario non si decideva, i guerrieri più impavidi uscivano dallo schieramento per insultalo e sbeffeggiarlo. I più coraggiosi e possenti tentavano, a volte, di impaurirlo mostrando la muscolatura ed i trofei di guerra appesi al collo e acconciati tra i capelli. Se l’avversario fosse stata un’altra tribù di orchi probabilmente i campioni si sarebbero sfidati, fermando la battaglia fino alla risoluzione dei singoli combattimenti, sotto lo sguardo attento dei compagni che scommettevano ed incitavano gli sfidanti.

Se lo scontro era particolarmente eroico gli onori venivano resi ad entrambi i contendenti ed il vincitore poteva dividere il cuore ed il fegato del caduto con la tribù dello sconfitto. Una serie di scontri eroici poteva porre fine ad una faida e creare nuove alleanze.

Gli uomini suscitavano disprezzo negli orchi, tolleravano i loro alleati, ma li ritenevano comunque esseri senza onore.

Kvar capiva che avevano usanze molto diverse e sapeva, per esperienza diretta, che potevano essere terribili e sconfiggere i grandi orchi in battaglia. Ugualmente li disprezzava. Non rispettavano i rituali guerreschi, non accettavano i duelli tra campioni se non raramente e quei pochi coraggiosi tra loro che lo facevano non venivano onorati degnamente. I loro corpi venivano ritirati per essere inumati e non venivano divisi. Le uniche volte in cui il loro campione aveva suscitato l’ammirazione dei guerrieri orchi al punto tale da essere onorato sul campo, gli uomini si erano scagliati contro le file degli orchi anziché rispettare la tregua rituale.

Eppure, col passare degli anni, Kvar si era reso conto che il loro modo di combattere era più efficace. Quegli esseri, inferiori fisicamente rispetto anche al più piccolo degli orchi, così privi di coraggio individuale da rimanere rintanati nei ranghi, riuscivano ad infliggere agli orchi perdite terribili. Le file ordinate dei contingenti degli uomini reggevano bene lo scontro frontale con le disordinate bande di guerra degli orchi. Le manovre coordinate dei vari reparti si trasformavano spesso in trappole mortali per le bande di guerra minori che si spingevano troppo avanti nella foga della battaglia. E proprio le manovre che aveva visto compiere alla cavalleria leggera il giorno del massacro dalla sua postazione sull’albero, lo avevano colpito.

Quei cavalieri si muovevano coordinati come stormi di uccelli nel cielo. Uccelli di morte.

E così, fin da quel giorno, prese l’abitudine di giacere nascosto a studiare le manovre delle truppe del nemico certo che la comprensione gli avrebbe portato dei vantaggi.